La foto è in bianco e nero, perciò l’azzurro delle maioliche smaltate sulle pareti dell’iwan nel cortile della Grande Moschea di Esfahan è solo intuibile, però il sorriso di Pier Paolo Pasolini con in mano il ciak è una memoria immediata. «Fra Pasolini e me c’era un dibattito sul concetto di linguaggio del cinema.» – scrive Roberto Villa (Genova 1937, vive a Milano) nel libro Gli Orienti di Pier Paolo Pasolini. Il fiore delle mille e una notte. Viaggio fotografico di Roberto Villa nel cinema Pasoliniano (NFC Edizioni, 2021) – in programma alla Casa del Cinema di Roma la presentazione del volume e la mostra fotografica (15 marzo-15 aprile) – «Pier Paolo sosteneva che il Cinema è ‘il linguaggio della realtà’ ed io che è ‘solo un linguaggio’.

Ho colto PPP con una mano sulla cinecamera, vicino c’era un attore con il ciak, me lo sono fatto dare e l’ho porto a PPP dicendogli Pier Paolo prendi, ti faccio un ritratto, mentre lo prendeva mi ha detto … ma è una finzione, al che ho risposto, Sì, anche il cinema è una finzione. Lui, memore del nostro dibattito, ha sorriso ed io ho scattato». Il fotografo aveva conosciuto Pasolini a Milano, nell’autunno del ‘72, avvicinandolo alla fine di un convegno per «chiedergli se avesse tempo e voglia di parlare del problema del linguaggio e della semiologia nel cinema. Mi guardò stupito, sorpreso che qualcuno con una fotocamera al collo potesse parlare di quegli argomenti. Mi disse che era interessato, aggiungendo però che a breve sarebbe partito per il Medio Oriente. Ma se vuoi – mi disse – avverto la produzione che c’è un fotografo sul set…».

In un’altra foto (sempre in b/n), durante le riprese nella Stanza degli Specchi, il regista appare quasi divertito mentre maneggia la sua Arriflex: «non perdeva mai il controllo e non mi è mai capitato di sentirlo recriminare o offendere qualcuno.» – ricorda Villa che nel ‘73 trascorse oltre tre mesi e mezzo in Yemen e Iran durante le riprese del film Il fiore delle Mille e una notte (Grand Prix Speciale della Giuria al Festival di Cannes 1974) che si svolsero anche a Karen e Asmara (Eritrea) e Katmandu (Nepal). «Davanti ad una clamorosa sciocchezza di un collaboratore, che stava per far crollare un fondale o un’impalcatura, mi ero preparato a scattare una foto per avere un’immagine delle sue reazioni, cosa che avevo poi fatto, ma ne è uscito un Pasolini sorridente mentre diceva all’incauto che salame!». Le «scene proibite», alla fine del film, con il disvelamento dell’identità di Zumurrud/Ines Pellegrini e il ricongiungimento con l’amato Nur ed-Din/Franco Merli furono girate proprio a Esfahan, in quell’ambiente carico di elementi decorativi riflettenti dove Dante Ferretti aveva costruito un soppalco, nella parte alta della navata della moschea, per proteggere il set da sguardi indiscreti.

In altre fotografie a colori, Villa coglie momenti di backstage (il direttore della fotografia era Giuseppe Ruzzolini e le foto di scena di Angelo Pennoni), tra pause, riprese, controcampi, primi piani. Sembra quasi impossibile immaginare che quelle scene di nudo, espressione di una sessualità libera dalle inibizioni – «un sesso felice, gioioso» come disse lo stesso Pasolini – possano essere state girate proprio in quel luogo, ma certamente al di là della segretezza non va dimenticato che fino al 1979 il paese era ancora governato dallo scià Reza Pahlevi e, benché soffocato dalla tirannia monarchica, godeva di una certa libertà negli usi e costumi. Nel suo testo in Gli Orienti di Pier Paolo Pasolini (altri interventi sono di Angela Felice e Paolo Nutarelli), Roberto Chiesi che è anche il curatore del volume L’Oriente di Pasolini (pubblicato nel 2011 dalla Cineteca di Bologna, a cui Roberto Villa ha donato il suo archivio fotografico, audio e video) definisce il fotografo «un intruso privilegiato» che ha osservato, colto e restituito l’immaginazione pasoliniana dentro e fuori il set, durante le riprese del terzo ed ultimo capitolo della «Trilogia della vita» dopo Il Decameron e I racconti di Canterbury. A Sana’a, tra l’altro, dove Pasolini aveva girato Il Decameron, con gli avanzi della pellicola, in un solo giorno (18 ottobre 1970) aveva fatto le riprese del documentario di 13 minuti intitolato Le mura di Sana’a (1971), concepito con l’intento di sollecitare l’intervento dell’Unesco per la salvaguardia della città e di altri musei all’aria aperta del paese, cosa che di fatto avvenne quando, nel 1986, la capitale dell’allora Yemen del Nord fu riconosciuta patrimonio dell’umanità.

In particolare, scrive Chiesi: «Lo sguardo di Villa ha saputo catturare magistralmente la sicurezza e la frenesia di un artista ritratto dentro il suo teatro visionario, osservatore e burattinaio al tempo stesso dei fenomeni che egli stesso muove e di quelli che ruba ad una realtà che è appena lì». Effettivamente nei 125 minuti di film (la sceneggiatura è in collaborazione con Dacia Maraini; le musiche di Ennio Morricone), frutto della libera interpretazione del classico Le mille e una notte, Roberto Villa scattando migliaia di fotografie con le sue Nikon F2 (una per il colore, l’altra per il bianco e nero e una terza di riserva) si sofferma tanto sui bellissimi costumi disegnati da Danilo Donati che sui nudi plastici delle attrici e degli attori, sui volti dei vari protagonisti e sui panorami presenti in quel «caos organizzato», tra realtà e messinscena.

Crea, quindi, una storia nella storia che inquadra senza giudizio né nostalgie di sapore orientalista – piuttosto con la curiosità della conoscenza – la quotidianità della gente, tra architetture ricamate nel fango, vicoli del suq, caprette, palme, sabbia del deserto e cieli azzurri ma anche scarichi fognari a cielo aperto, come ricorda la foto scattata a Sana’a in un momento di attesa del ricongiungimento della troupe. Del resto «la verità non sta in un solo sogno, ma in molti sogni», come è riportato nei titoli di testa del film citando Le mille e una notte.