In famiglia ricordano quegli anni come un periodo nervoso e a tratti straniante. «La sera, se uscivamo, al ritorno lui faceva il giro di tutti i pianerottoli del palazzo con la pistola in pugno per essere sicuro che nessuno fosse lì per un agguato», ricorda Loreta, che oggi ha novant’anni. Lui era Mario Mandrelli, suo marito, per un trentennio capo della procura di Ascoli, l’’omo che indagò e riuscì ad ottenere pesanti condanne per i responsabili del sequestro e dell’omicidio di Roberto Peci, il fratello di Patrizio, il primo pentito della storia delle Brigate Rosse.

IL PIANO di Giovanni Senzani, il professor bazooka che era asceso a capo delle Br dopo l’arresto di Mario Moretti, prevedeva la punizione dell’infame attraverso la vendetta trasversale: un orrore che, anche all’interno della stessa organizzazione non aveva trovato tutti d’accordo. Anzi, molti brigatisti erano fermamente contrari all’esecuzione della sentenza di morte e lo fecero presente attraverso una serie di comunicati fatti arrivare alle redazioni dei giornali durante i 55 giorni di un sequestro cominciato il 10 giugno a San Benedetto del Tronto e concluso il 3 agosto del 1981 con il ritrovamento del cadavere di Roberto Peci crivellato da undici colpi di mitra in un casolare della campagna romana.

MARIO MANDRELLI quell’estate la passò ad aspettare l’inevitabile: che Roberto non sarebbe mai tornato a casa era chiaro a tutti sin dal primo momento. Senzani aveva un obiettivo politico palese: lanciare un messaggio ai compagni che pensavano di collaborare con lo Stato. Chi parla muore, nessuno è al sicuro.

La legge doveva ancora arrivare, ma già le confessioni di Patrizio Peci raccolte dal generale Dalla Chiesa avevano inferto dei colpi durissimi alle Brigate Rosse, tra arresti eccellenti, intere colonne smontate e il massacro di via Fracchia a Genova.

A SAN BENEDETTO, dove vivevano i Peci, la lotta armata era più di un’eco di quello che accadeva nelle grandi città industriali. Tutto è cominciato nel Natale del 1970, quando il motopeschereccio Rodi naufragò davanti alla costa della città e ci vollero giorni perché si decidesse di andare a recuperare i corpi dei naufraghi. L’armatore non voleva per motivi assicurativi, i giovani della sinistra cittadina, capeggiati da un agguerrito gruppo di Lotta Continua, bloccarono tutto per due giorni: barricate sulla Statale e alla stazione ferroviaria, assalti alle sedi di Assoindustria e del Movimento Sociale Italiano.

LA LOTTA PAGA. Un assunto che, grazie a quei fatti, era diventato molto più che una suggestione in città. Mandrelli si trovava spesso ad avere a che fare con i giovani dell’ultrasinistra, ma non aveva mai mostrato particolare accanimento verso di loro, anche se ancora oggi gli ormai ex compagni ne ricordano il nome con una certa dose di timore.

LA MUSICA CAMBIÒ quando i Pail (i Proletari Armati in Lotta) cominciarono a evolversi nella colonna marchigiana delle Brigate Rosse. Patrizio e Roberto Peci frequentavano il giro e avevano messo su anche una specie di covo, un po’ ritrovo per festicciole e appuntamenti e un po’ deposito di armi vecchie e arrugginite. Quando fu scoperto e smontato, Roberto disse di saperne poco o nulla, mentre Patrizio era già entrato in clandestinità a Milano.

«La risposta dei brigatisti fu dura», ricorda ancora Loreta. «Una notte misero un’autobomba sotto casa, ma l’ordigno invece di esplodere prese fuoco, per fortuna». Il botto, dirà poi la polizia, avrebbe buttato giù la facciata del palazzo dove abitava il magistrato.

Roberto Peci, come suo fratello Patrizio, era accusato di essere un infame. Antennista, la volta che andò alla caserma dei carabinieri a sistemare dei cavi fu interpretata come la prova provata del tradimento. In realtà, quando era stato interrogato dopo il ritrovamento del covo, Roberto aveva tenuto la bocca chiusa. I verbali, ancora custoditi dalla famiglia Mandrelli, dicono che a mettere nei guai decine di compagni sambenedettesi fu un altro ragazzo, di Lotta Continua. Comunque, quando in via Arrigo Boito si consumò il sequestro, Senzani cominciò a diffondere comunicati in cui si diceva che il suo obiettivo era punire un traditore. La verità, indicibile, era però un’altra: colpire Patrizio attraverso l’esecuzione di Roberto. Ci sono i nastri con i video di quel «processo proletario»: le immagini sgranate, l’inquadratura tremante, le voci piatte dei brigatisti e quella spaventata dell’imputato. Un film dell’orrore sulle note dell’Internazionale.

IL PROCESSO per quei fatti andrà in scena cinque anni dopo, nell’aula bunker del carcere di Ancona. Era l’estate del 1986. Duro e a larghi tratti inquietante, finì con l’ergastolo per Giovanni Senzani, 26 anni di carcere per Stefano Petrelli, 25 anni per Natalia Ligas e Susanna Berardi, 24 anni e 6 mesi per Massimo Gidoni, 15 anni per Roberto Buzzati e una sfilza di condanne minori per alcuni esponenti delle Br abruzzesi. Le tesi esposte da Mandrelli vennero accolte in pieno dalla corte e le condanne resisteranno in Appello e in Cassazione.

TRA LE OMBRE e la poca voglia di parlare da parte di chi ai tempi era solo un ragazzo, oggi a San Benedetto del Tronto, di questa storia resta ormai solo un dettaglio toponomastico: via Boito, teatro del sequestro, ora si chiama via Roberto Peci. Il resto è inquietudine di provincia, là dove sembra che dietro ogni angolo possa esserci un ombra, nonostante le apparenze. O forse proprio come le apparenze.