«Difficilissimo è fare questo ritratto al sig. Berenson. E ciò indipendentemente dalle difficoltà della regola secondo la quale ‘solamente ciò che un uomo un giorno sarà e diverrà, potrebbe dirci con precisione ciò che quest’uomo oggi è’».

Così, nel giugno del 1958, Roberto Papi quando si appresta a stendere Una visita al signor Berenson pubblicato quell’anno da Sansoni. Bernard Berenson morirà novantaquattrenne pochi mesi dopo, nell’ottobre del 1959.

Un ritratto, dunque, che coglie Berenson nei suoi giorni estremi, eseguito sulla soglia che congiunge il Berenson che sarà al Berenson che tuttavia è. Papi delinea il vegliardo con una scrittura e un lessico tanto precisi e netti (piccolo, gentilissimo, con una barbetta a punta e l’occhio la cui limpidezza saetta di continuo) quanto capaci di aprire ogni pur minima rilevazione di fatto alla vastità delle prospettive che si irradiano in molteplici infilate ed alle volute ed arcate campite dal corso lungo degli anni, entro il giuoco delle quali soltanto pare possibile, a Papi, dar conto di una presenza, di un contatto, «tanto su quel suo silenzio, intorno a quel suo sorriso, riverberano, come luci dentro uno specchio, tutte quelle notizie che accompagnano da sempre la sua fama».

Il resoconto di una visita delinea allora un ritratto componendo la figura di Berenson secondo una compenetrazione di piani spaziali e temporali: le stanze della Villa ai Tatti a Ponte a Mensola e il paesaggio di Settignano che le invade fino a incontrare gli sfondi di paese nelle tavole del Rinascimento appese alle pareti. Arredi, affacci, immagini dipinte e scolpite che trascorrono a contornare le linee di quel volto e a muovere i modi misurati di un passo, di un gesto della scarna mano.

È la mano che nel 1903 vergò le suadenti considerazioni su Sassetta, il pittore senese della «leggenda francescana», ed ora indica quel mare tremulo dipinto dall’artista nella gran pala d’altare che orna una sala dei Tatti. Diresti che Papi, nell’eseguire dal «vero» il ritratto del famoso critico, faccia tesoro d’uno dei capisaldi teorici dell’estetica di Berenson. Mi riferisco alla teorica delle sensazioni immaginarie, «quelle che esistono», si apprende dalle pagine di Aesthetics and History in the Visual Arts, «solo nella fantasia e sono prodotte dalla capacità dell’oggetto di far sì che ci rendiamo conto della sua entità e viviamo della sua vita».

Non per caso Papi rende il vivente ritratto di Berenson descrivendo «un fatto curioso, straordinario» quello che reputa il suo connotato più peculiare ed eminente: «su quella barbetta, intorno a quel sorriso, vola un piccolo ‘puntino’, o alito, o ricciolo, la parcella infinitesimale di un qualcosa di indecifrabile; vola a piccoli cerchi, in spirale, alzandosi sempre di più, finché poi d’un tratto, ecco, e l’espressione di lui acquista maggiore fermezza, è già librato, alto, in cima a quel suo sguardo, come un satellite allo zenit dell’ellissi, dinanzi all’astro maggiore intorno a cui ruota».

Di Berenson Papi tratteggia l’aspetto fisico e le maniere quali si son venuti conformando nella continuata attività di meditazione e di penetrazione delle opere d’arte. Un contatto ed un esercizio che hanno consentito la formazione d’un modo o comportamento, quello speciale plesso di relazioni che plasma la condotta dei sensi e la regola della percezione. Tanto che l’attitudine del corpo del critico nonagenario, la sua voce, il suo sguardo, ogni sua movenza sono situati nell’ordine che le opere d’arte istituiscono.

Berenson avrebbe così costruito d’attorno a sé l’universo delle sue elaborate sensazioni. Le sensazioni che lo tengono si affermano come lo spazio entro il quale le opere d’arte e la vita trovano la maniera che consente una reversibilità, un reciproco trapassare agevole che reca il transeunte dell’età nel permanente dell’opera e produce una consistenza che sia agibile, sensibile – tattile la dice Berenson – alla apparenza, alla congettura fantastica, formale.

Papi basa il suo ritratto su quel puntino che «si libra alto sul modello» e che ora gli appare come un continente mirifico, «l’unica effettiva proprietà di cui l’uomo possa vantarsi qui sulla terra».