«All’epoca ovviamente non si potevano controllare subito le foto sul visore della macchina, o andare in albergo a guardarle su un computer. Ma Jarrett si è sempre dilettato un po’ di fotografia: preciso com’è, faceva per bene tutto quello che faceva, comprese le foto. Quindi magari era in grado di intuire che dal servizio che stavo realizzando su di lui poteva venire fuori qualcosa di valido». Roberto Masotti se lo spiega così, che nel ’73, a Bergamo Alta, Jarrett abbia chiesto al giovane fotografo italiano che gli stava scattando delle foto, un fotografo che gli era del tutto sconosciuto, di farle subito avere negli Stati Uniti alla Impulse, che doveva pubblicare un suo disco, e a Monaco di Baviera alla Ecm.

Jarrett era in cartellone al festival del jazz di Bergamo, e Arrigo Polillo, direttore di «Musica Jazz», aveva commissionato un’intervista e a Masotti un servizio, con l’obiettivo di mettere Jarrett anche sulla copertina della rivista. «Avevo fatto un sopralluogo, Jarrett fu della massima disponibilità, e facemmo delle foto in due-tre situazioni, fra Battistero, Duomo e Piazza Vecchia; era arrivato con in mano il Doctor Faustus di Thomas Mann, e lo fotografai anche con quello. Mandai le foto alla Impulse, e una diventò la copertina di Treasure Island. I dischi della Ecm erano già conosciuti, apprezzati, quindi stampai le foto più accuratamente che potei e le portai a Monaco: a Manfred Eicher piacquero, entrarono nel cofanetto Bremen/Lausanne e da lì è cominciato il mio rapporto con la Ecm». Per anni responsabile della comunicazione dell’Ecm per l’Italia, Masotti ha fotografato Jarrett in molte altre occasioni, e ha assistito ad un centinaio di suoi concerti. Gli scatti di Bergamo non erano stati i primi, Masotti lo aveva già fotografato in concerto a Bologna nel ’69 e poi nel ’71 col gruppo di Miles Davis a Berlino e a Milano. Proprio da Bologna ’69, coprendo un arco di quarant’anni attraverso immagini esclusivamente in bianco e nero, prende le mosse il libro fotografico di Masotti Keith Jarrett, a portrait, con testi di Geoff Dyer, Franco Fabbri e Masotti (Seipersei, 112 pp., 40 euro): un ritratto che dopo l’annuncio dell’autunno scorso che Jarrett, a causa di due ictus che lo hanno colpito nel 2018, non suonerà più, acquista fatalmente un carattere «definitivo».

Quando nel ’69 fotografi per la prima volta Jarrett, non sei ancora un fotografo professionista.
Avevo terminato il liceo e studiavo industrial design. Mi interessavo di rock e iniziavo ad interessarmi di jazz. E cominciavo a fare foto. A Bologna avevo la Rolleiflex di mio padre, una macchina con un’ottica fissa, fortunatamente molto silenziosa, così presi il coraggio a quattro mani, mi alzai, andai sotto al palco e feci alcuni scatti. Il risultato mi piacque, e quelle foto di Jarrett furono tra quelle che mi spinsero a continuare sulla strada della fotografia.

Poi ci fu Jarrett con Miles: cosa ti colpì, sia musicalmente che dal punto di vista visivo?
Il gruppo elettrico di Miles fu una scossa adrenalinica. Jarrett era sì un componente fondamentale del gruppo ma era l’assieme, la visione complessiva di Miles a inchiodarti con il suo mix originalissimo. C’era in effetti una cura diversa dal passato in termini visuali, e se da un lato si affermava l’aspetto afro-black dall’altro percepivi la fortissima influenza del rock.
Nel Jarrett dal vivo, anche con Davis, colpiva un elemento di fisicità, in cui c’era qualcosa di estatico, e un modo non convenzionale, non conformista di porsi: anche con l’occhio del fotografo, che impressione ti faceva?
Questi aspetti c’erano già prima della sua collaborazione con Miles. Basta vedere su YouTube certe cose che faceva con il quartetto di Charles Lloyd: era impressionante già allora, si metteva in gioco, e non è che ci fosse qualcosa di particolarmente studiato, penso che gli venisse così. Come anche l’aspetto della vocalità, che risulta a molti fastidioso, il fatto di canticchiare sopra, di fare versi, di gemere, eccetera: a parte il fatto poi che se si spazia un po’ di più ci si accorge che questo avviene anche con pianisti classici, per esempio anche con Pollini, a volte. Quanto all’espressione fisica di Jarrett, l’occhio vedeva una cosa, ma tutto sommato la musica andava avanti dritta imperterrita: cioè le due cose sembravano quasi assieme e nello stesso tempo quasi dissociabili, perché chiudendo gli occhi e concentrandoti sul suono sentivi una cosa che mediamente, soprattutto in certi periodi, era superlativa e sempre sorprendente.

Se Jarrett è apparso piuttosto estroverso nel suo modo di porsi in scena, non sembra invece essersi molto preoccupato del proprio look, un po’ come se affidasse tutta la sua immagine alla musica che faceva e all’«aura» di questa musica.
In effetti il suo vestire marcava ben poco la scena ed era più assimilabile ad un abbigliamento sportivo, qualcosa che gli consentisse di muoversi liberamente all’interno di una posizione tutto sommato obbligata, di non trovarsi mai legato. I pianisti hanno tendenze di questo genere, le scarpe-pantofole di Pollini ad esempio…

Dopo Bergamo nel ’73 grazie al tuo rapporto con la Ecm e all’amicizia con Eicher hai potuto avere con Jarrett un rapporto piuttosto privilegiato: che grado di confidenza hai raggiunto con lui?
Negli anni successivi ci incontrammo spesso: a Umbria Jazz e a Pescara nel ’74, a Monaco, a Bregenz. Jarrett era tranquillo ma molto consapevole e concentrato sulla sua carriera. La sua disponibilità è testimoniata da foto il giorno dopo i concerti, a Perugia nel ’74 e a Venezia nell’81: gli avevo semplicemente buttato lì di andare in giro e fare qualche scatto, e questo avveniva senza nessun filtro, senza bisogno di accordi con il management, con questo e con quello…

E negli anni successivi?
Con il crescere del mito Jarrett confesso che un po’ in soggezione lo ero. Ma paradossalmente ci pensava Keith a ricordarmi che potevo fare, mi diceva: so che sei lì e non mi dà fastidio, il semplice fatto che lo sappia e accetti mi sta bene. Soprattutto negli ultimi anni mi è capitato di poter lavorare indisturbato, unico fotografo, in momenti di prove, e non ci sono mai stati problemi. Anzi appunto qualche volta mi ha detto: guarda che puoi avvicinarti anche di più. Perché nonostante la lunga frequentazione il personaggio intimidiva. Anche per via della terribile malattia che ha attraversato, la sindrome da fatica cronica, che lo aveva molto provato e lo aveva cambiato. Questo aveva suscitato nel mio atteggiamento un rispetto ancora più forte.