Roberto Longhi nel 1934, foto Ghitta Carell

 

Nel 1950 Roberto Longhi destina a una sede privilegiata, il primo numero di «Paragone Arte», lo scritto con l’attribuzione a Diego Velázquez di un piccolo dipinto conservato a Roma, nella collezione dell’‘Aurora’, in palazzo Pallavicini-Rospigliosi. Titola l’opera, vedremo perché, La rissa all’Ambasciata di Spagna. Poche pagine prima, a seguire l’editoriale della rivista da lui fondata, splendono le Proposte per una critica d’arte, in cui Longhi accoglie «l’impegno assunto da Manzoni nel 1822: “Io faccio quel che posso per penetrarmi nello spirito del tempo che debbo descrivere, per vivere in esso”». Nel saggio sulla Rissa anche Longhi fa quel che può, al punto che esso appare, poche pagine dopo, una specie di traduzione ‘didattica’, per il lettore non solo settoriale cui «Paragone» intendeva rivolgersi, del prediletto principio manzoniano.
«Il pittore pare farsi testimonio della verità, con la mano al petto: – Il fatto successe venerdì scorso che sarà stata poco più dell’ora di sesta; visto coi miei occhi. Io stava sulla porta per entrare e mi voltai. V’erano ** e ** e ***; tre italiani e due spagnoli: misero la mano alle armi. Il sergente Alonso e il portero volsero dividerli. V’erano delle carte napoletane stracciate a terra. Non ho visto altro se non che uno seduto che si riparava. Non so chi sia stato il primo –». Longhi crea una finzione letteraria per «attestare» l’obiettività ‘cronachistica’ dell’occhio linceo di Velázquez, pittore che altrove gli è piaciuto definire, con Charles Blanc, «segretario intimo della natura».
Nell’intraprendere la strada del romanzo storico, di una «verisimiglianza non contradicevole», era stata decisiva, per Longhi, la lettura del gran libro di Carl Justi su Velázquez (1888). Lettura che rimonta agli anni dieci, se lo cita (per la prima volta) in Gentileschi padre e figlia (1916). C’è da credere che il potere incantatorio di quelle pagine aumentasse per lui di intensità allorché si trovò faccia a faccia con i capolavori del Sevigliano al Prado: era l’estate del 1920, la Spagna seconda tappa del viaggio in Europa occidentale e centrale che, nel giro di un anno e mezzo, lo avrebbe mutato da ‘formalista’ in ‘conoscitore’. Nello Justi leggeva ad esempio un brano manzoniano come questo: «la città era piena di soldatesche e armi. I nobili romani, i cardinali, gli ambasciatori stavano nei loro palazzi circondati dalle loro guardie del corpo, che li accompagnavano giorno e notte nelle loro uscite; gente rissosa che per un nonnulla veniva alle mani e spesso lasciava morti e feriti sul terreno».
Si parla di Roma 1630, dove Velázquez, trentunenne, è approdato nel corso del suo primo viaggio italiano: quale descrizione più propria a situare storicamente la Rissa all’Ambasciata di Spagna, da lui realizzata proprio in quell’anno? Ad accogliere l’«attimo di cronaca svelato» da Velázquez – e da Longhi – «nel colore dell’aria romana, ispessita dalle nubi; i riflessi rapidi, mano alla fronte, dell’ira che sale; i cappellacci di feltro, i fucili a terra col calcio di legno chiaro; la bandiera arrotolata alla finestra; i guardiacaccia che parlottano più in basso nella vigna»?
Fra i suoi brani di «verisimiglianza non contradicevole», Justi aveva inserito anche quelli, letterari punto, del «dialogo sulla Pittura» (che riassume le problematiche estetiche legate alla giovinezza andalusa di Velázquez) e soprattutto del finto «giornale di viaggio» con cui il pittore riferisce le sue vive impressioni della scena artistica di Roma 1630: diversi studiosi, al tempo, scambiarono questo «scherzo» per un documento, rivelato per la prima volta e, evidentemente, importantissimo, a fronte del silenzio quasi assoluto degli archivi riguardo alla ‘voce’ del pittore spagnolo. Anche il giovane Longhi ci cascò, ma la sua reazione non fu irritata né moralistica, come quella di diversi colleghi, piuttosto ammirativa, perché «se i critici d’arte si proponessero qualche penso di quel genere, si accorgerebbero come sia difficile e bello far ribattere il proprio polso al ritmo di quello dei tempi che studiano, o vorrebbero studiare» (Giunte e varianti ai due Gentileschi, 1920-’21).
Significa qualcosa che proprio nel 1950, l’anno della Rissa, Longhi tirasse fuori dai cassetti, per il terzo numero di «Proporzioni», lo «scherzo 1922» (mai pubblicato prima) Un ignoto corrispondente del Lanzi sulla Galleria di Pommersfelden nel quale, tornato dal viaggio d’Europa, si finge, ideologicamente e linguisticamente, «uno storico già anziano», in data 1809, che riferisce all’abate Lanzi le sue impressioni sulla pittura italiana del Sei-Settecento contenuta in quella raccolta principesca, non riuscendo a celare le sue preferenze per il «barocco» dietro la deferenza verso il gusto neoclassico del destinatario. Marco M. Mascolo ha già ben argomentato, su «Prospettiva» (gennaio-aprile 2016), la ‘dipendenza’ di questo divertissement dai tranelli letterari di Justi. Nel successivo Un “San Tomaso” del Velázquez…, 1927, Longhi immagina «un particolare – questo certamente autentico – che il Justi avrebbe utilmente aggiunto al suo fantastico Diario del soggiorno romano del Velázquez»: la visita del Sevigliano a San Carlino per vedere il «prodigioso» San Carlo Borromeo di Borgianni, pittore che nello stesso saggio, sviluppante gli innesti dell’arte italiana in Spagna fra Cinque e Seicento, viene indicato quale fonte non riconosciuta dei suoi accrescimenti.
Rimarrebbe da stringere sul posto occupato dalla Rissa in questo intrigante ping pong fra anni venti e dopoguerra, due stagioni così diverse del tragitto longhiano.
Nel tempo, non tutti gli studiosi hanno accettato l’attribuzione a Velázquez. E poi, perché «ambasciata di Spagna», quando si tratta evidentemente di un luogo fuori porta? Ma Longhi è esplicito, nell’‘accreditare’ la fantasia: non l’ambasciata «di città, ma quella di campagna; una ‘casa de campo’, forse affittata dal Monterey \[l’ambasciatore spagnolo\], per scampare il gran caldo, verso i Castelli». Alcuni, ben poco manzoniani, hanno voluto credere che l’elemento di finzione mascherasse l’insostenibilità dell’attribuzione? Se non altro, poteva metterli sull’avviso che uno storico dell’arte allergico alla «letteratura» come Federico Zeri non nutrisse alcun dubbio sull’autografia velázqueña, al punto da volere La rissa, pubblicata per la prima volta a colori, come copertina del catalogo della Galleria Pallavicini (Sansoni, «Biblioteca di Proporzioni», 1959; l’anno prima, per la stessa casa editrice, era uscita, a firma Mina Bacci, allieva di Longhi, la traduzione del Velázquez di Justi).
In ogni caso, il tempo ha scoperto la verità, e oggi pochi – ma tra questi José López-Rey, autore del catalogo ragionato dei dipinti di Vélazquez (Taschen, 1996) – mettono in dubbio l’autografia. Fra i dati esterni, a parte il modello identico che figura nella Fucina di Vulcano, dipinta dal pittore negli stessi giorni, sappiamo, da un inventario non troppo tardo (1686), che tra i quadri Colonna, in seguito confluiti nella collezione Pallavicini, risultavano due «bambocciate di Velasco»: preziosa indicazione, specialmente per chi nega che lo spagnolo potesse provarsi in quel genere «inferiore», senza vedere la libertà cui lo predisponeva la sua incredibile agudeza.
Nel saggio di «Paragone», una manciata di pagine, la dimensione ‘romanzesca’ non è giocata soltanto sul registro manzoniano: anche su quello autobiografico. Come in altre circostanze, Longhi inscena una ricerca del tempo perduto: la sua storia d’amore con il dipinto era cominciata nel 1923; si rinnovò nel 1943, in una nota a conclusione degli Ultimi studi sul Caravaggio («Proporzioni», I), dove rivelava che la prima volta La rissa gli era parsa «giusto a mezza via tra il grande pittore spagnolo e Aniello Falcone». «L’urgenza di rinnovare il contatto diretto con il dipinto, era ormai palese»: succede nel 1945, «e súbito l’impressione antica rinacque con nuova forza . Il quadro era veramente del Velázquez».
Cinque anni dopo pubblica l’attribuzione, che viene a realizzare una precisa, ‘magica’ congiuntura, e un’apertura di discorso: La rissa vi si pone come il momento più alto e pungente di quel «caravaggismo a passo ridotto» che nella Roma del 1630, con le migliori scene ‘documentarie’ dei ‘bambocciari’ di prima generazione van Laer e Cerquozzi, dovette incuriosire oltremodo il giovane maestro maturatosi ‘veneziano’, ma di prette origini naturaliste.
Bisogna ricordare che nello stesso 1950 il longhiano Giuliano Briganti, con un articolo su «Proporzioni» e una mostra romana al Palazzo Massimo alle Colonne, cominciava il suo lungo lavoro di ricerca sui Bamboccianti, sfociato, più di trent’anni dopo (1983), nell’importante volume per Ugo Bozzi, firmato insieme a Ludovica Trezzani e Laura Laureati. Se Briganti, in anticipo sullo Haskell di Patrons and Painters (1963), metteva a fuoco la verve anti-accademica di questi pittori di strada, «pigmei» che «pizzicano di Gigante», come si era espresso in una celebre missiva Andrea Sacchi, indignato che essi avessero fatto breccia perfino tra gli intendenti, Longhi allargava il campo dalla Roma di van Laer e Cerquozzi alla Napoli di Aniello Falcone. È proprio in rapporto a Velázquez, di stanza qualche tempo sotto il Vesuvio prima del ritorno in Spagna all’inizio del 1631, che Longhi definisce Falcone e la sua lucidità di ‘valori’, indicata con la pubblicazione di un dipinto inedito, l’Elemosina di Santa Lucia, oggi a Capodimonte, dove il fatto sacro si annulla nel puro pezzo di vita tra il popolino partenopeo. 1631 è anche la data che occhieggia da una sella nella Battaglia di Falcone al Louvre, appartenuta a Luigi XIV, studiata da Saxl, quanto di più vicino a Velázquez in Italia a quell’epoca.
Nel saggio sulla Rissa, con stupenda penetrazione, Longhi legge le due grandi tele velázqueñe dell’«inganno», La tunica di Giuseppe e La fucina di Vulcano, anch’esse dipinte a Roma nel 1630, come «ingrandimenti mentali di quadri “a passo ridotto”». Ma, soprattutto, vede nella spregiudicatezza obiettivante con cui lo spagnolo interpreta un soggetto incondizionato come la zuffa dei bravi sotto le mura del Monterey la premessa – pur ‘ridotta’ – al capolavoro di storia recente, di qualche anno più tardo, La resa di Breda ovvero Le lance: «Semmai gli chiesero prima come pensasse di cavarsene, il Velázquez avrà potuto rispondere che ci s’era già provato: – A Roma, sei anni fa, dipinsi una rissa tra italiani e spagnoli all’ambasciata! Ora dipingerò la riconciliazione dopo una rissa più lunga». E risiamo alle favole vere di Carl Justi.