Il 10 ottobre 2018 per il Centenario della Associazione Alessandro Scarlatti Roberto De Simone ha presentato la nuova opera Talvolta nel corso dell’Eternità, una sorta di autobiografia tra parole e musica, lavoro incentrato sul tema della fine e di un mondo in disgregamento, i cui responsabili sono il capitalismo e la società dei consumi. Del resto, De Simone ha sempre denunciato la decadenza dei tempi, le lobby clientelari e politiche, dove gli interessi personali fanno sì che la cultura non trovi spazi vitali.
Maestro, com’è oggi Napoli sotto l’aspetto culturale e teatral-musicale?
Napoli è connotata da un profondo degrado culturale che si mostra in diverse manifestazioni appartenenti a Istituzioni che dipendono dallo Stato. Considerata la qualità dei risultati raggiunti dal Teatro San Carlo e dal Conservatorio di Musica, sarebbe il caso di chiuderli, riformulare una nuova legge di gestione e riaprirli. Poiché il gestore ha bisogno del ritorno d’immagine, il San Carlo s’apre a qualsiasi manifestazione teatrale-spettacolare e audio-visiva: dal calcio spettacolare alla canzone, al nome di spicco di qualche personaggio, fino alla commedia, magari di autori non eccelsi, recitata pretestuosamente senz’attenzione alla funzione che dovrebbe svolgere il Teatro. Il San Carlo ha il dovere di promuovere manifestazioni relative alla musica e al teatro musicale che nei secoli hanno connotato la sua attività. Lo stesso vale per il Conservatorio di Musica più glorioso e storico d’Italia e d’Europa, dove la formazione è catastrofica perché il neoliberalismo e il capitalismo hanno travolto anche la funzione dei sindacati che guardano solo ai propri privilegi in contrasto con l’interesse didattico che gli insegnanti, coi dovuti distinguo, dovrebbero mostrare verso gli allievi. Se si perde di vista la missione del musicista, il Conservatorio non ha necessità di operare. Un altro problema annoso del Conservatorio è la Biblioteca che, colonizzata e gestita come Biblioteca scolastica, ha degradato la funzione del più prezioso accumulo di documenti storici. Bisognerebbe renderla Istituto museale con quattro bibliotecari musicofili e personale incaricato alla Biblioteca, senza far capo al personale del Conservatorio.
Lei ha una formazione musicale classica. Come avviene l’incontro con la musica e la cultura popolare?
Quando studiavo Pianoforte e Composizione al Conservatorio, dopo aver ascoltato la Butterfly di Puccini, volevo diventare un Puccini post Cio-Cio-San con un orecchio a Bartók e uno a Gershwin. Ebbi la seconda spinta quando lessi La terra del rimorso di Ernesto de Martino. Dissi: «Non posso diventare un de Martino perché ho un altro tipo di cultura, ma potrei diventare un tarantolato perché non ho un’identità precisa». De Martino avrebbe potuto scoprire la mia crisi della presenza. Infatti, a 22-23 anni ero un paria nell’orizzonte culturale napoletano perché, non avendo appoggi politici o clientelari, mi fu preclusa l’attività concertistica malgrado i diplomi conservatoriali e premi nazionali. Così, figlio di un sottoproletario, iniziai a svolgere l’attività di artigiano musicale insegnando privatamente Solfeggio e Armonia.
Inoltre, espletavo le competenze di compositore per sceneggiati della TV o per canzoni celebri in trasmissioni televisive come ‘Canzonissima’ e ‘Senza rete’. Lì conobbi Leo Ferré, per il quale scrissi una Ballata eseguita il 10 ottobre scorso con altri tre brani per il centenario dell’Associazione Alessandro Scarlatti. Un’opera in prima esecuzione assoluta dove spicca Naufragio su versi di Enzensberger e dove il fil rouge è la condanna del cinismo capitalista e della società consumista. Lavoravo anche in un locale americano, il ‘Siemens Club’, dove m’arricchii di competenze sul Jazz; un arricchimento parallelo al mio interesse suscitato da de Martino nell’indagare le tradizioni non più attraverso documenti scritti, ma osservando direttamente forme e feste popolari. Ciò mi condusse a Sessa Aurunca in una casa di contadini, dove tra le immagini dei Santi spiccava la fotografia di un bambino dormiente tra colonne di marmo e strutture di carattere monumentale. Domandai chi fosse. Mi fu risposto che era il figlio della contadina morto 2-3 mesi prima e che, prima d’essere calato nel cimitero di Sessa Aurunca nella fossa comune dei poveri, la madre l’aveva vestito del cappotto buono e fotografato sulla tomba del più ricco possidente della zona, ossia il proprietario della terra in cui lavoravano. La cosa mi parve talmente eclatante che dissi: «Vorrei diventare quel bambino! Sentirmi morto e fotografato sulla tomba di un ricco non più però con significato del contadino, ma col significato di uno che si fotografa come bambino su un ricco morto realmente, cioè sulla morte della ricchezza». Forse sono diventato quel bambino, perché veramente l’ho sperato. Era questo il fine della mia carriera. Parliamo della seconda metà degli anni Sessanta.
Perché Lei è una figura scomoda per i chierici di sinistra?
I chierici di sinistra sono indietro, per cui si leggessero Wittgenstein, de Martino, Lévi-Strauss, Pasolini, etc. Ecco perché non posso essere comodo. Tutto quello che possono dire non m’interessa, perché ne sono consapevole e perché il mio accento sulla tradizione popolare non è stato quello del significato semantico di un presunto canto politico, ma quello della reale esigenza culturale della cultura contadina e popolare: la religiosità, quindi la sacralità. Pasolini aveva capito molto bene che il nocciolo della cultura popolare, antitetica a quella borghese, era proprio la religiosità. I miei scritti s’erano orientati tutti sulla religiosità popolare, a partire dal volume Chi è devoto e dalla collaborazione con Annabella Rossi, della quale tuttora non viene valutato l’alto significato dei libri Lettere da una tarantata e Le feste dei poveri. I chierici di sinistra l’hanno fatta cadere nell’oblio come de Martino.
Con «La Gatta Cenerentola» (1976) ha schiuso una faglia col teatro piccolo-borghese di Eduardo De Filippo che non tutti hanno gradito. Perché?
Ero collaboratore musicale di alcune opere di De Filippo, trasmesse in TV. Era un figlio di Scarpetta ma, mentre lui affidava la recita a esperti conoscitori dell’improvvisazione teatrale, vera essenza del teatro napoletano, De Filippo vietava agli attori di mettere in scena se non le parole del suo testo. Una volta che un attore aveva cambiato alcune parole nel testo di una commedia rappresentata a Firenze, interruppe la rappresentazione dicendo al pubblico che l’attore non aveva rispettato il testo e lo pregava di recitare di nuovo il testo con le parole della sua scrittura. Quest’assoluta fascista imposizione del testo ha distrutto il teatro perché se n’è travisato il senso. L’arte dell’improvvisazione s’acquisisce oralmente per cui, morti i reali portatori di questa sapienza, il teatro non ha avuto più grandi attori dell’improvvisazione come Gennarino Palumbo e Umberto D’Ambrosio detto Trottolino, che hanno recitato in alcune mie opere. La gatta Cenerentola ha preso le distanze dal testo scritto come imposizione di una commedia; è strutturata come un rito che ha bisogno della ripetizione esatta dei moduli e della gestualità, per cui il mio non è un testo drammaturgico ma rituale.
Cosa avrebbe detto Pasolini dell’Italia, dove sia la politica sia gli pseudo-intellettuali vivono alla mercé dei poteri forti?
L’ha detto apertamente in Petrolio, interpretato purtroppo in chiave semplicistica, come qualcosa di cui sbarazzarsi e di non completato, invece è una sorta di rituale. Quando Pasolini parla dell’epoché, presagisce la nostra attualità, dove tutto è degradato: significato scientifico, politico e religioso.
Provocatoriamente, il Suo ‘Requiem in memoria di Pier Paolo Pasolini’ potrebbe riecheggiare nei teatri che prosperano nel degrado culturale?
I teatri istituzionalizzati svolgono un’attività altamente riconosciuta dalla borghesia che si pasce anche della sottocultura napoletana. Servono ai clienti del potere: registi, scrittori, critici. Il Requiem esprime concetti inadatti a tutto ciò perché, quando lo scrissi, attuai un progetto provocatorio: un Requiem per un intellettuale assassinato. Però, nel 1985, alla prima esecuzione c’era Corrado Ursi, Cardinale di Napoli che, alla domanda di un giornalista: «Qui si tratta di una Messa per uno scomunicato», diede una risposta intelligentissima: «Sono qui in veste di ascoltatore non di pastore».