[ACM_2]C’è una foto di quasi cinquant’anni fa, scattata a Rhêmes-Notre-Dame durante un seminario estivo della Einaudi, che coglie Roberto Cerati in un gesto così fortuito da tradursi paradossalmente nella perfezione di un profilo etico: a un tavolo all’aperto, ingombro dei resti di una colazione, Elio Vittorini sta guardando un libro mentre un uomo ancora giovane, in piedi e preso di profilo, con i capelli a spazzola, gli occhiali di celluloide nera e una giacca di taglio cinese, punta il dito sulla copertina e gli sta indicando qualcosa, forse il nome dell’autore o il titolo o un minimo dettaglio tipografico.
Di Roberto Cerati, della sua esistenza trascorsa nel silenzio e nella totale operosità, quella foto rappresenta una vera e propria allegoria mentre allude a un virtuale passaggio di consegne. Il suo lavoro silenzioso, il fatto che alla Einaudi egli fosse entrato nel primo dopoguerra con umili mansioni, che si fosse a lungo occupato del settore commerciale (in primo luogo della promozione e del rapporto coi librai), che infine si rendesse indispensabile, con un apprendistato da basso clero, in una couche di intellettuali e di scrittori dal curriculo invece sfolgorante, tutto questo è iscritto da tempo nella sua leggenda di dirigente editoriale e di straordinario imprenditore di cultura.
Se Cerati ha lasciato poche parole che non fossero occultate in verbali di riunioni, promemoria e corrispondenza redazionale, se si è negato puntualmente alla ritualità delle interviste (anche da presidente della casa editrice, concedendosi una eccezione per il centenario della nascita di Giulio Einaudi), la sua impronta digitale si propaga negli anni decisivi, fra i cinquanta e i settanta, per la costruzione di un catalogo che associa, con un assortimento irripetibile, narrativa e scienze umane, storiografia e politica, humanae litterae e prospettiva socioeconomica, come peraltro testimoniano i libri di ex redattori (da ultimo, il bel volume di Luca Baranelli e Francesco Ciafaloni, Una stanza alla Einaudi, Quodlibet 2013), un capolavoro di storia dell’editoria quale Pensare i libri: la casa editrice Einaudi dagli anni Trenta agli anni Sessanta (Bollati Boringhieri 1999) a firma di Luisa Mangoni e, di riflesso, I verbali del mercoledì. Riunioni editoriali Einaudi 1943-1952 (a cura di Tommaso Munari, Einaudi 2011).
Tanto laconico e inapparente, si direbbe chiuso in una dimensione pragmatica, è proprio lui ad accogliere il mandato del meno einaudiano fra gli einaudiani quanto alla postura e al carattere sulfureo, l’autodidatta Elio Vittorini, e cioè la passione per la ricerca sul campo, lo scouting editoriale, la necessità di un impegno etico-politico sottratto alle indicazioni di partito e dunque portato a valutare l’eresia come un bene necessario, una linfa vitale.
Cerati aveva esordito poco più che ventenne, fra le macerie di Milano, strillando in Piazza Duomo i titoli del «Politecnico» settimanale, nei giorni in cui usciva Uomini e no, il romanzo dove il suo maestro affermava, nero su bianco, che dirsi comunisti implica una volontà, un voler essere al futuro, ma scrivere e pubblicare un libro incarna viceversa una realtà concreta e al presente: «Cercare in arte il progresso dell’umanità è tutt’altro che lottare per tale progresso sul terreno politico e sociale. In arte non conta la volontà, non conta la coscienza astratta…» È questo un imperativo categorico cui Roberto Cerati, nel corso di una vita fervida e limpida, non è mani venuto meno.