Alla Roberto Cavalli in più di cento hanno dovuto firmare una sostanziale lettera di licenziamento, e solo in 54 hanno accettato il trasferimento a Milano, che avverrà a partire da settembre. Alla fine ha vinto l’azienda, il fondo di sviluppo immobiliare Pramac Properties del Dubai, di proprietà del magnate Hussain Sajwani, a capo di un arcipelago di società, che aveva acquistato la Roberto Cavalli lo scorso anno con la sua società di investimento privato Vision.

Per i manager di Sajwani il trasferimento nel capoluogo lombardo era assolutamente necessario, dopo tre ristrutturazioni negli ultimi cinque anni, e una cassa integrazione avviata già nel novembre scorso, poi prorogata a causa del coronavirus fino alla fine dell’estate. Ma Simona Casali, combattiva delegata Rsu Filctem, al sito Collettiva della Cgil ha offerto una ben diversa chiave di lettura: “A Milano ci sono appena venti persone, nello showroom in affitto del marchio, mentre da noi a Sesto Fiorentino c’è uno stabilimento e due palazzine, dove si fa di tutto, dal designer alla produzione, alla commercializzazione. Visto che l’azienda è attiva anche sul mercato immobiliare, scommetto che alla fine ci sarà la vendita degli impianti di Sesto, che si estendono per 25mila metri quadri, tutti di proprietà”.

Per certo nell’ultimo incontro organizzato in Regione Toscana dall’assessore ombra Gianfranco Simoncini, ufficialmente consigliere di Enrico Rossi per il lavoro, e al quale hanno partecipato in videoconferenza il sindaco di Sesto Fiorentino, Lorenzo Falchi, le organizzazioni sindacali Femca Cisl e Filctem Cgil, la Rsu e i rappresentanti dell’azienda, questi ultimi sono stati ancora una volta irremovibili: o a Milano, o a casa.

Alla fine i 170 addetti della casa di moda, costituito al 65% da donne (perlopiù mamme), con una età media di 40-45 anni e uno stipendio da 1.500 euro al mese, sono stati obbligati a una scelta terribilmente dolorosa. Come detto, oltre cento di loro hanno dato la pre-adesione al cosiddetto “piano sociale”: il licenziamento con corresponsione da 8 a 11 mensilità, a seconda dell’anzianità di servizio in azienda. Mentre poco più di 50, quelli con una maggiore possibilità di spostarsi senza eccessivi effetti collaterali, si trasferiranno a Milano, secondo le condizioni previste dal contratto nazionale in casi del genere. Ben poco comunque rispetto al trasloco da sostenere, e soprattutto agli affitti da pagare.

“Scompare la storica sede fiorentina dell’azienda – tirano le somme Femca Cisl e Filctem Cgil Firenze – si perde un enorme patrimonio professionale e umano, oltre a una risorsa per il territorio. Inoltre restiamo preoccupati sul futuro industriale del marchio, perché in Toscana sono numerose le ditte fornitrici. I lavoratori hanno lottato finché hanno potuto per convincere l’azienda a rinunciare alla chiusura della fabbrica, ringraziamo le istituzioni locali che ci sono state accanto”.

Anche agli enti locali non è rimasto che prendere atto della situazione. “C’è il ‘piano sociale’ per sostenere i lavoratori che hanno scelto di non trasferirsi – osserva Gianfranco Simoncini – ma ora ci dovrebbe essere anche un confronto per supportare i disagi a cui andranno incontro i 54 lavoratori che dovranno spostarsi”. La Regione e il Comune di Sesto Fiorentino hanno chiesto garanzie per l’indotto, trovando la conferma che i rapporti resteranno, per il momento, in piedi. Infine, per il futuro dello stabilimento, è stato “auspicato” che possa tornare ad essere sede di attività produttive. Ma il pallino resta nelle mani dell’azienda.

Il sindaco sestese Lorenzo Falchi resta di cattivo umore: “Prendiamo atto dell’accordo sindacale che, quantomeno, potrà alleggerire l’impatto sociale di una scelta che impoverisce il territorio, grazie al lavoro dei sindacati e della Rsu. Ma sono disgustato dal comportamento della proprietà che, fin dall’inizio, ha tenuto un atteggiamento opaco anche nei confronti delle istituzioni, che chiedevano di conoscere il piano industriale”. Infine una riflessione più generale: Sul piano della responsabilità sociale il comportamento dell’azienda è incommentabile. Vanno trovati strumenti normativi per impedire situazioni del genere”.