Un autore all’avanguardia della rivoluzione digitale hollywowodiana ma il cui cinema ha la fibra dell’era classica dello studio system, uno sperimentatore irriducibile che fa blockbuster per il pubblico di massa, un umanista convinto che ricrea interamente al computer il mondo reale e persino gli attori, un artista dall’esuberanza pop ma allo stesso tempo malinconico…Robert Zemeckis è uno dei maggiori registi americani viventi. Ce lo ha ricordato, insieme all’uscita in sala (in Italia il 22 ottobre) del suo ultimo, bellissimo, lavoro, The Walk una retrospettiva, curata da Dave Kehr per il Museum of Modern Art, che si conclude questo week end.

Come dice lo stesso regista di Chicago nell’intervento pubblicato su Alias di questa settimana, The Walk, è una summa del cinema di Zemeckis e il suo manifesto poetico più esplicito. Ma, da 1964 Allarme a New York (1978), il suo primo film e, come l’ultimo, una lettera d’amore a New York, e Used Cars (1980) l’affilata satira del capitalismo americano, passando per classici come Il mistero delle pietra verde (1980), la trilogia dei Back to the Future (1985, 1989, 1990), Forrest Gump (Oscar 1994 per il miglior film e per la migior regia) e Cast Away (2000), l’opera di Zemeckis ci ha racontato l’America degli ultimi quarant’anni con grandissima intelligenza. Non a caso, nel suo testo introduttivo alla retrospettiva, Kehr lo ha paragonato a Mark Twain.

Da Who Framed Roger Rabbit?, in cui ipotizzava una permeabilità quasi totale tra il mondo reale e quello dei cartoon, Zemeckis si è mosso all’avanguardia dell’esplorazione tecnologica del cinema, settando gli standard, con Polar Express (primo film realizzato completamente in motion capture), del digitale in 3D. La sua affascinante esplorazione tra realismo fotografico e stilizzazione quasi la ricerca di una «terza via» di una razza meno umana ma non completamente artificiale. Forse la stessa per cui Jodie Foster frugava così lo spazio in Contact (1997).

Naufraghi sperduti in mezzo al mare, viaggiatori nel tempo, piloti e astronauti che fanno fatica ad affrontare la vita giù a terra, il conduttore di un treno che sfreccia verso il Polo Nord, un ragazzo francese che passeggia tra le nuvole nel cielo di Manhattan ….scollamento, distanza, solitudine sono i modi della condizione esistenziale zemeckisiana, e le cifre della sua arte.

Fortunatamente per noi, il suo cinema ricco di meraviglia, appassionato e generoso è di/per tutti.

L’intervento che segue è frutto di un incontro pubblico con Robert Zemeckis, tenutosi in occasione della sua retrospettiva, al Museum of Modern Art di New York, e di un’intervista che gli ho fatto in coincidenza con l’uscita americana di The Walk.

Il protagonista di «The Walk» è un altro degli eroi solitari che popolano la sua filmografia a partire da «Forrest Gump». Anche l’idea del volo è un’immagine ricorrente nel suo cinema…

Ho iniziato a lavorare su The Walk dieci anni fa, ma ho deciso di fare Flight solo dopo aver finito Contact… Questo per dire che sono sicuro di come The Walk si inserisca nella psicologia dei miei film. Certo, come in Flight c’è un disastro aereo. Ma nulla di tutto ciò è fatto consciamente. Scelgo un film quando leggo una sceneggiatura che mi piace o trovo un’idea per scriverne una – due modi di lavorare che alterno, perché penso che girare copioni altrui aiuti anche la mia scrittura. Ma, in entrambi i casi, il personaggio, è il punto fondamentale del mio interesse.

Non succede mai che io dica «adesso voglio fare un musical» o «adesso faccio un film di guerra». Per me si tratta sempre di trovare il personaggio e di come la storia si evolve partendo da lui.

Nel caso di The Walk, la cosa che mi ha conquistato subito era la passione di Philippe. Quando ho scoperto la storia mi sembrava così incredibile… Non mi ricordavo che fosse successa – in quegli anni ero alla scuola di cinema, alla USC, quindi un po’ tagliato fuori dal mondo. Mi sono messo a studiarla, su vecchi ritagli di giornale e poi ho invitato Philippe a venire a Los Angeles. Abbiamo trascorso una lunga cena a parlare. Il gesto che aveva compiuto era sorprendente, ma ciò con cui io potevo veramente identificarmi era la passione che lo aveva portato al quel gesto.

Conosco benissimo la sensazione di quando devi dare sfogo a qualunque costo a un particolare moto di espressione creativa.

Il film è una combinazione di due sensazioni opposte, meraviglia e pericolo…

Era un insieme di emozioni che ho trovato insolito anch’io. E, a mio parere, una cosa che si poteva catturare solo al cinema. Non credo ci sarebbe stato altro modo di fare trovare lo spettatore esattamente dove era stato Philippe, e di ricostruire il più possibile il suo punto di vista, che è in linea di massima quello che ho cercato di fare nella sequenza dalla camminata sul filo. Si trattava di emozioni conflittuali difficilmente traducibili altrimenti.

È un progetto cui ha lavorato dieci anni. Ci è voluto così tanto perché ha dovuto aspettare l’evoluzione di una tecnologia particolare?

No, anche se da punto di vista tecnico il ritardo ha giocato a nostro vantaggio. Questo è stato un film difficile da fare perché è stato difficile convincere Hollywood a finanziarlo. Non è facile realizzare film inconsueti, che hanno un tono e uno stile diversi. È per quello che c’è voluto tanto. Nell’arco di questi anni, però, la tecnologia stava facendo progressi sempre più grossi. Così, ho assunto un atteggiamento filosofico: il film si sarebbe fatto quando sarebbe arrivato il momento.

In definitiva, dal punto di vista tecnico, ogni film che ho fatto prima di questo mi ha preparato a The Walk. L’unico effetto visivo che non abbiamo usato è il cartone animato, perché non ho trovato un posto dove metterlo. Tutto quello che vedete sullo schermo, delle torri e della città, è animazione 3D virtuale. Oltre a quello, abbiamo usato anche un po’ di performance capture (anni fa, quando la image works di Zemeckis faceva base alla Disney, Philippe Petit aveva ricreato la sua performance perché fosse ripresa in motion capture, ndr).

Per tutta la parte che precede e riguarda la camminata sul filo, l’unico set realmente costruito è, infatti, un angolo di circa 10×15 metri del tetto delle torri, che abbiamo usato prima per girare quello che succedeva sulla cima delle torri sud e poi, capovolgendo il punto di vista e modificando un po’ la scenografia, quello che succedeva in cima alla torre nord.

Oltre a quello, di «reale» avevamo solo il filo e Joseph Gordon Lewitt, nei panni di Philippe. Il risultato è cosi magnificamente riuscito che devo veramente ringraziare la squadra effetti, di chi ha disegnato le matte e del mio direttore della fotografia, Darius Wolszki.

Crede che il digitale sia il maggior cambiamento nel cinema americano avvenuto da quando ha iniziato a lavorare nell’industria?

Senz’altro. Ha cambiato tutto e sta continuando a farlo, in modo sempre più rapido. Ed è una cosa che mi rende molto felice perché realizzare degli effetti speciali complessi, sta diventando facile e poco costoso. I computer sono così potenti e veloci che oggi, alla USC, ci sono ragazzi della scuola di cinema che creano su desktop mondi virtuali di una qualità paragonabile a quelli realizzati dalle migliori case di effetti speciali di Hollywood. E, quando gli effetti speciali saranno accessibili a tutti i registi e a tutti i film, spero che torneremo a concentrarci sulla storia, dato che l’elemento spettacolare non sarà più una discriminante.

Ma gli effetti speciali non servono molto senza la visione di un regista. Un esempio bellissimo del suo sguardo nel film è il momento in cui Philippe inizia a camminare sul filo: la città prima è nascosta dalle nuvole e poi si apre improvvisamente sotto di lui. E’ un momento magico che lei ha realizzato con movimenti di macchina molto lunghi. Una scelta controtendenza oggi.

Il momento delle nuvole è stato ispirato direttamente da Philippe. Mi ha detto, infatti, che, nell’istante prima di mettere il piede sul filo, ha avuto la sensazione che, ad eccezione di quel filo, il mondo intorno a lui fosse improvvisamente scomparso. Mi è sembrata un’emozione bellissima e molto realistica. Non volevo quindi tradurla in uno schermo bianco, cosa che è probabilmente successa nell’occhio della sua mente. Così Dariusz ha suggerito di introdurre le nuvole. Per quanto riguarda lo stile della regia, qui, ci sono due principali ragioni per avere delle inquadrature lunghe.

Mi sono avvicinato al film, e a quella scena in particolare, come a un balletto, un numero di danza coreografato. Pensavo che fosse importante che la macchina fosse una specie di partner di Philippe, sul filo. Quindi la sua velocità, il suo ritmo, è prima di ogni altra cosa un’estensione della performance. E c’è un altro beneficio: il montaggio veloce con il 3D non funziona. Perché l’occhio non ha tempo di afferrarlo. Infatti, in genere, un regista astuto, quando c’è una scena veloce, elimina il 3D, evitando così la distrazione del cervello che sta cercando di ricostruire lo spazio tra le due immagini stereoscopiche. Una certa lentezza è cruciale per l’uso efficace del 3D.

Ha visto il documentario «Man on the Wire?»

L’ho visto una volta. Mi sembra molto buono. Ma tenga conto che avevo cominciato questo progetto dieci anni fa, prima ancora che il documentario fosse entrato in lavorazione. E, senza togliere nulla ai suoi meriti, la cosa che il documentario non poteva rendere è la camminata, che è il culmine di tutto il film, e del processo artistico di Philippe. Non ci sono immagini filmate della camminata sul filo. In The Walk, a un certo punto, si vede uno dei ragazzi sul tetto della Torre nord che sta caricando una cinepresa sedici millimetri. È successo proprio così: stavano per cominciare a girare quando sono arrivati i poliziotti e hanno dovuto scappare. Quindi non c’è girato della performance.

Ci racconta il processo con cui sviluppa un personaggio?

I personaggi sono fondamentali. Il cuore del processo. Io credo che la prima cosa da fare sia definire cosa vuoi da un film. Una volta trovata quella premessa, hai un personaggio centrale che la porta avanti, gli altri personaggi sono al suo servizio. A sua volta, il tuo personaggio, si trova davanti ad una serie di scelte – andare a destra, sinistra, sotto…- e queste sue scelte dipenderanno dalla premessa del film.

Almeno, questo è il modo in cui lavoro io. È una tecnica del racconto, vecchia maniera, tradizionale, ma che secondo rimane la più efficace, almeno per quanto riguarda la narrativa occidentale.

«The Walk» è un film pensato interamente per il 3D ma è stato girato piatto e poi gonfiato. Perché?

Oggi girare in 3D è molto vecchia scuola. Abbiamo girato tutte le inquadrature con lo stesso obiettivo e poi lo abbiamo convertito in 3D. È più facile e più efficace. L’unica cosa che forse va ancora ripresa in 3D è l’acqua, perché è ancora molto difficile da convertire e molto costosa. Per quello, forse, vale a pena di tirare fuori quelle cineprese enormi e girare in 3D. Ma oggi la conversione dà possibilità infinite, perché puoi settare i livelli della tridimensionalità, a seconda della velocità della macchina o del montaggio. Quindi hai un controllo enorme. Se giri in pellicola e in negativo quello che giri è quello che hai. Mentre, grazie alla potenza dei computer oggi puoi decidere, inquadratura per inquadratura, se l’effetto deve essere più o meno ovvio.

Vi siete serviti di consulenti di psicologia?

No, non abbiamo chiesto aiuto a nessuno psicologo, anche se abbiamo passato molto tempo a capire come indurre il senso di vertigine nel pubblico. Quello, si può dire, è un effetto psicologico su cui abbiamo lavorato molto. Cosa provoca il senso di vertigine? La velocità della macchina, la scelta dell’obiettivo…Abbiamo analizzato tutte le variabili…

A un certo punto c’è un’inquadratura in cui si ha veramente l’impressione di cadere.

Forse è il risultato di una scelta subconscia. La mia intenzione era solo di avere almeno un’inquadratura che legasse Phlippe alle persone giù in strada. E quello era l’unico modo di farlo senza ricorrere al montaggio.

Il film è anche un viaggio indietro nel tempo, in un periodo della storia americana politicamente complicato. In quel senso, Petit sembra una specie di De Tocqueville moderno, che ricorda agli americani di cosa sono capaci…

Una delle grandi cose di cui è capace il cinema è di guardare al passato attraverso l’obbiettivo della storia, quindi distillandolo. È difficile, quando si fa un film sulla contemporaneità cogliere il senso di quello che sta succedendo. È la storia che ti permette di esercitare quel giudizio. E, nelle migliori circostanze, un filmmaker riesce a rendere quel passato rilevante per il presente.

Cosa importante in questo film, perché molto è cambiato da allora, a partire dal fatto più ovvio che le torri sono state distrutte. Ma, in generale, a me piace pormi delle domande sul presente guardando indietro. Mi sembra interessante, per esempio, il fatto che oggi non ci siano artisti che fanno gesti come quello Philippe.

Non abbiamo artisti, anarchici, sovversivi, che lavorano in quella sfera ……ad eccezione di Banksy. E quello è di per sé un dato interessante sulla psiche del momento.