La definizione della disciplina warburghiana è tanto felice quanto nota: «All’opposto di tante altre, esiste ma non ha nome». Meno conosciuti sono la figura e l’opera di chi l’ha coniata, il filosofo e storico dell’arte e delle idee Robert Klein (Timisoara, 1918 – Firenze, 1967). Tra i suoi lavori si ricorderanno forse Il processo Girolamo Savonarola (1957, da noi ripubblicato con una prefazione di Adriano Prosperi) e soprattutto i saggi de La forma e l’intelligibile, presentati da Andrè Chastel e da lui raccolti col sostegno degli altri amici di Klein, Marcel Bataillon, Henri Zerner, Hubert Damish, Jacques Guillerme, Enrico Castelli, Eugenio Garin e Paul Ricoeur. Pubblicata da Gallimard nel 1970 e tradotta cinque anni dopo da Einaudi, poi in inglese (nel 1979) e infine in tedesco (nel ’96), quest’opera non ha tuttavia goduto dell’attenzione che meritava. Proprio mentre si diffondeva un cliché à la Warburg, Klein restava ingiustamente nell’ombra.
Oggi va dunque salutata come un evento eccezionale l’apparizione dell’inedito L’Esthétique de la Technè. L’art selon Aristotele et les théories des arts visuels au XVIème siècle (Institut National d’Histoire de l’Art, pp. 293, euro 28,00), curato in modo ineccepibile da Jérémie Koering – anche autore dell’ottima Presentazione – e arricchito da un Avant-propos di Zerner, che è un ricordo personale e affettuoso, teso a spiegare non tanto per quali motivi ma in quali circostanze Klein, dopo una vita di tribolazioni, sfuggito alla Shoah, vissuto a lungo come apolide a Parigi in condizioni assai precarie, decise il 22 aprile di cinquant’anni fa di togliersi la vita sulle colline di Settignano (era borsista di Villa I Tatti) quando per la prima volta godeva non solo della stima degli studiosi ma della sicurezza materiale, e la sua intelligenza già impegnata su molti fronti «si rivolgeva ad ambiti inconsueti».
L’originalità del soggetto
L’Esthétique de la Technè si impone certo all’attenzione per l’originalità del soggetto e dimostra ancora una volta la finezza stilistica e argomentativa oltre che l’erudizione incomparabile di Klein. Ma questo libro ha anche un ruolo primario nella grande impresa, finora ignota ai più, che ha impegnato lo studioso a partire dai primi anni cinquanta. Si tratta di una vera e propria rilettura della storia dell’arte e della letteratura artistica alla luce della tradizione aristotelica, che univa il concetto di arte come produzione e perizia con quello di arte come facoltà e attitudine, cioè la téchne con l’habitus o la hexis. Come testimonia una considerevole mole di inediti, le tappe principali di questa ricerca corrispondono al lungo mémoire discusso nel 1953-’54 dinanzi a Étienne Souriau, Ars et Technè dans la tradition de Platon a Giordano Bruno (che sarà pubblicato prossimamente in Italia a cura di chi scrive); alla tesi di dottorato intitolata Refléxion sur l’art en Italie à l’époque du maniérisme, redatta poco dopo sotto la direzione di Henri Bédarida ma abbandonata con la scomparsa dell’italianista (1957); e appunto all’Esthétique de la Technè, la cosiddetta «thèse Chastel». Klein aveva completato questo lavoro «verosimilmente nel 1963», ma lo riteneva ancora passibile di correzioni e sviluppi, come fa notare Koering basandosi sugli appunti, e suggerendo giustamente che anche la ricerca incompiuta sui cosiddetti Tarocchi del Mantegna (oggetto di un’ultima comunicazione ai Tatti) dev’essere considerata un ulteriore sviluppo, in un contesto del tutto mutato, del tema teorico dominante.
Le lezioni di Varchi
«L’arte è un abito fattivo, con vera ragione di quelle cose che sono necessarie, il principio delle quali non è nelle cose che si fanno ma in colui che le fa». Le parole di Benedetto Varchi (Due Lezzioni, 1549) sono per Klein il documento di una concezione che ormai trascura «l’inevitabile mimesis», opponendo alla «necessità interna dei prodotti della natura» l’arte intesa come habitus o «proprietà del soggetto», come attività che ha il suo principio nell’artefice stesso. Questa posizione innovativa (anche rispetto alle concezioni dell’arte come scienza, come discorso o come ispirazione) riprende tuttavia alla lettera un luogo celebre dell’Etica a Nicomaco e si lega così al lignaggio nobile dei commentari medievali. Da un lato, osserva Klein, Varchi può citare con successo la definizione aristotelica dando voce alla rivincita tardiva delle idee del Medioevo su un umanesimo in declino; dall’altro, egli può ora riferirla per la prima volta all’arte in senso proprio piuttosto che all’ambito generale delle arti meccaniche e liberali. La teoria delle artes si trasforma allora in estetica dell’artificio, o dell’opera che suscitando meraviglia attrae l’attenzione sulla maniera del suo farsi, sulla maestria o padronanza dell’artista.
Spiegando quindi nel dettaglio come l’artificium manierista si sia gradualmente affrancato dalla modalità ripetitiva delle arti meccaniche, Klein ricostruisce anche la continuità della teoria classica della téchne, ne fa emergere l’«estetica implicita», vera condizione di possibilità dell’invenzione di Varchi come del virtuosismo di Cellini o del terribile di Michelangelo. Egli mostra inoltre come lo stesso contrasto storico tra libertà e coazione meccanica risalga alla duplicità essenziale dell’habitus, che è insieme istinto e riflesso condizionato, azione e riflessione.
Se già nella «thèse Souriau» del ’53 l’arte come disposizione si situava «fra la potenza e l’atto, fra il sapere e il potere, fra la facoltà e la routine, la qualità individualizzata e l’acquisizione obiettiva», qui la hexis manierista coincide con questa tensione: si afferma e si scopre come recta ratio mentre si libra, oltre ogni norma, sul vuoto della contingenza. Essa deve sfidare e vincere la «vertigine» del caso, facendosi quindi artificio o adattamento sempre più ingegnoso o dissimulato (la sprezzatura) – e finendo, di nuovo, per rivelare la propria arbitrarietà: «se è vero che l’arte è una “potenza dei contrari” e che “il suo principio è in colui che la esercita, non nella cosa che fa”, lo stile artificialista deve far sentire che l’artista avrebbe potuto fare altrimenti ogni volta che ha fatto qualcosa». Così «il manierismo illustra Aristotele». Ma annuncia anche i tentativi novecenteschi di integrare l’aleatorio nel necessario (Mallarmé, Valery) ovvero di raggiungere il nucleo della necessità a partire dall’arbitrario (il cubismo di Juan Gris); e fornisce, ogni volta, la premessa all’irruzione più potente del caso, sia barocca o moderna: «l’art brut, l’arte dei bambini, degli alienati e il “Surrealismo” … ecco cosa preparava l’aristotelismo manierista nel momento della sua totale presa di coscienza, che è la sua totale messa in questione».
L’«habitus» di Husserl
Nel dettato sobrio e «avant tout analytique» (Zerner) di Klein, una simile considerazione certo spicca, e attrae come un’apertura a sua volta quasi stravagante. Ora, prise de conscience è la traduzione (dovuta a Ricoeur) della Besinnung di Husserl, che come si sa «concerne noi stessi», «filosofi del presente». Proprio della nozione husserliana di habitus – ovvero di identità, proprietà, continuità o permanenza dell’ego concreto – Klein aveva offerto nei saggi di quegli anni un’interpretazione geniale, legandola al piano dell’«intersoggettività». Il nostro habitus è paradossale: non possiamo coglierlo, possederlo (sarebbe l’avere di un avere, in una fuga all’infinito, spiegava Aristotele), e perciò – inferisce Klein – implica il punto di vista altrui, un passaggio attraverso l’alterità dello spettatore. Se «l’arte in quanto possesso è habitus», ogni habitus rimanda quindi all’arte come «spettacolo per la coscienza». La fenomenologia illustra Aristotele, si potrebbe chiosare, ma il manierismo illustra Husserl. Proprio la nostra integrità o coerenza di soggetti (quella tendenza caratteristica, la serie delle scelte o delle responsabilità) non è forse che una stupefacente maniera, esposta alla «revoca implacabile della vertigine e del caso».