«Tutta la letteratura americana moderna discende da un libro di Mark Twain intitolato Huckleberry Finn», recita una famosa affermazione che Ernest Hemingway inserì in Verdi colline d’Africa. «Prima non c’è niente e dopo niente che lo valga». Difficile dire che lo scrittore di Oak Park avesse ragione in senso assoluto, ma l’opera di Twain è senza dubbio una vetta tra le più alte nella narrativa statunitense. L’uso del linguaggio popolare, impiegato dall’autore attraverso l’eloquio ineducato del protagonista, ha segnato per sempre la letteratura americana, mentre Huck Finn è divenuto nel tempo una vera e propria figura mitologica. Fu Twain stesso a riassumere il proprio romanzo descrivendolo come una storia in cui «un animo puro si scontra con una coscienza deformata, sconfiggendola», e Huckleberry Finn resta in effetti l’esempio mirabile di uno spirito libero che si oppone alla moralità snaturata di una società ipocrita, invaghita di una supposta grandezza, le cui fondamenta affondano nell’istituzione disumana della schiavitù e nel genocidio. Stanco di compromessi e di doversi adattare a restrizioni per lui incomprensibili, alla fine del romanzo Huck decide di abbandonare quella che chiama la «siviltà» per cercare fortuna nei territori dell’ovest, ultimo vero baluardo di libertà sul continente.

Da qui si ricomincia
Proprio da qui Robert Coover riprende la storia del giovane ribelle nel suo Huck Finn nel West (traduzione di Riccardo Duranti, NN editore, pp. 355, € 19,00). Pubblicato nel 2017, il romanzo è il più recente (e il migliore) dei testi che, ricollegandosi e ampliando l’universo narrativo di Twain, si sono cimentati con le sue storie e i suoi personaggi. Già esperto di riscritture, nella sua lunga carriera Coover si è dedicato a decostruire diversi personaggi, non solo letterari. Dotato di capacità virtuosistiche e spirito iconoclasta, lo scrittore americano si era già cimentato con un Richard Nixon erotomane, un Pinocchio decisamente scatologico e con la dissacrazione dei protagonisti di fiabe popolari quali Hansel e Gretel, Biancaneve e Il pifferaio di Hamelin. Questa volta, lungi dall’abbandonarsi alla ironica demolizione della creatura di Twain, e anzi mosso da una reverenza a lui per nulla consueta, decide di ricostruirne amorevolmente la figura. Lo influenza l’aspetto più ludico (ma filologicamente rigoroso) del genere postmoderno: Huck Finn nel West è infatti un pastiche di cui è protagonista un ragazzo non più giovane e decisamente più crepuscolare dell’originale, su cui incombe una marcata, persistente amarezza. Quelle che erano le riflessioni irriverenti dello Huck inventato da Twain si trasformano in un cupo rimuginare malinconico cui non mancano tuttavia i guizzi geniali dell’omonimo dal quale discende; ma questo personaggio invecchiato porta chiaramente su di sé le cicatrici profonde dell’esperienza della frontiera.

Restano intatti l’eloquio sghembo ed esuberante del vecchio Huck, reso in maniera magistrale nella nostra lingua dalla traduzione di Duranti, e la sua fisiologica impossibilità di schierarsi dalla parte del più forte, delle regole imposte, della «siviltà» in formazione. Attraverso un tono fortemente grottesco, Coover svela il prezzo della civilizzazione tanto decantata da alcuni dei suoi personaggi. Il West restituito dal romanzo è esilarante nella sua anarchia e nella totale mancanza di razionalità che lo governa: nel personaggio di Deadwood, pioniere ubriacone buono a nulla e contaballe patologico, l’autore racchiude la parodia feroce delle tradizionali leggende della frontiera, dei pistoleri invincibili e delle incredibili gesta eroiche che sono parte fondante della narrazione trionfalistica statunitense. Non manca poi il lato più oscuro dell’Ovest, che Coover descrive con dovizia di particolari, raccapriccianti quanto quelli di un western apocalittico come Meridiano di sangue.

Nel caos di un territorio irriducibile all’ordine e inseparabile dall’esercizio ininterrotto della violenza, l’autore si scaglia apertamente contro l’epopea della frontiera: se, già nei romanzi di Twain, Huck e l’inseparabile Tom Sawyer incarnavano le forze opposte (ma non inconciliabili) di un’America scissa tra natura e cultura, innocenza e potere, nell’opera di Coover il rapporto tra i due si fa più teso, con Sawyer che viene trasformato in un avventuriero senza scrupoli e in un cieco apologeta della dottrina del destino manifesto. Secondo lui, chiunque si frapponga all’espansione americana, e in special modo i Nativi decisi a lottare per le loro terre, deve essere «appiccato».

La critica di Stanford Shelley Fisher, autrice di uno dei lavori più interessanti sull’opera di Twain, Was Huck Black? ponendosi una domanda funzionale all’introduzione di una prospettiva autenticamente multiculturale, legge in Huck Finn la rappresentazione di un ponte tra bianchi e afroamericani, una figura estranea alle limitazioni intrinseche alle consuete dinamiche del potere e capace di comunicare davvero con le culture subalterne. Il romanzo di Coover mantiene queste premesse e mostra un Huck Finn più a suo agio con i Nativi americani che con le schiere di cowboy, soldati e cercatori d’oro che popolano le Black Hills.

Messico, ultima terra libera
Al protagonista è preclusa l’identificazione con la cultura di appartenenza, che cerca anzi di farlo fuori più e più volte in quanto amante di «schifosi indiani»; e lo fa soprattutto attraverso la figura del generale Culo Tosto, alter ego altrettanto sanguinario di George Armstrong Custer. Alle storie che Tom Sawyer prende dai libri di avventure, e che in età adulta sostituisce con un insopportabile sciovinismo, Huck preferisce ormai i racconti del trickster Coyote narrati dall’amico Lakota Eeteh.
Insieme a questa figura gemella di perdigiorno dall’animo gentile, altro reietto inveterato in un mondo fatto di sopraffazioni quotidiane, Huck decide di abbandonare la frontiera, divenuta ormai troppo «sivilizzata» e turbolenta, per fuggire verso il Messico, nuova ultima terra libera per chi, come lui, è deciso a rescindere ogni vincolo con le istituzioni. Così, Finn abbandona definitivamente gli Stati Uniti, ancora in formazione ma già chiaramente viziati dalla violenza e dall’ineguaglianza, per cercare finalmente una storia che non sia semplicemente una fra le tante, ma che appartenga solo a lui.