Ha lavorato con Andrea Arnold, Ken Loach, Sally Potter, Stephen Frears, Yorgos Lanthimos e Noah Baumbach, Robbie Ryan è uno dei direttori della fotografia più contesi dal cinema indipendente contemporaneo. Appassionato spettatore di festival l’ho incontrato, nonostante il Covid, anche quest’anno a Venezia. Mi racconta: «Dopo il college mi venne offerto un lavoro come operatore a Dublino, ma a quei tempi dovevi essere iscritto ad un sindacato, dopo tanta gavetta, diventavi operatore. Volevo lavorare subito così decisi di partire per Londra».

Un incontro determinate è stato quello con Andrea Arnold. Come avete cominciato a collaborare?
Andrea era alla ricerca di un direttore della fotografia per un suo corto, Wasp. Ci siamo incontrati in un caffè, mi ero lasciato da poco con la fidanzata, credo che abbia percepito la mia emotività. Con Wasp Andrea ha vinto l’Oscar, subito dopo abbiamo iniziato a lavorare per Red Road, un film collettivo, prodotto da Lars von Trier, girato da tre registi, che raccontavano storie diverse utilizzando la stessa attrice. Nel film di Andrea l’attrice era un’addetta alla sicurezza. Il film contiene molte immagini di video sorveglianza, la sfida è stata rendere la visione uniforme e naturale, non effettata. Le lenti delle camere di sorveglianza erano molto lunghe, come direttore della fotografia è stato interessante realizzare delle riprese con zoom così lunghi. Red Road vinse il premio speciale della giuria al festival di Cannes e subito dopo abbiamo iniziato il primo lungo di Andrea, Fish Tank. Nei film di Andrea la camera sta sempre attaccata agli attori, li segue costantemente. Come Ken Loach, Andrea consegna la sceneggiatura agli attori giorno per giorno. Eravamo in cinque sul set di Fish Tank ad aver letto prima delle riprese tutta la sceneggiatura.

Con il secondo lungo di Andrea Arnold, «Cime Tempestose» (Wuthering Heights) ti sei confrontato con un film in costume. 
Ambientato nelle bellissime vallate dello Yorkshire ha richiesto molta energia fisica. Il tempo era piovoso, il terreno scivoloso e fangoso, ho indossata degli stivaletti da rugby per tenermi in piedi. Anche filmare i cavalli in corsa è stata impresa ardua. Ho utilizzato una IMO, una camera militare molto piccola usata negli aeroplani per i bombardamenti, è stata una rivelazione per quelle scene. Ho utilizzato delle lenti Panavision. Ho sempre bisogno di buone lenti sul set. Era ottobre il periodo perfetto dell’anno, con i colori più belli della natura, un paesaggio che da verde diventata giallo, una brughiera spettacolare. Questa luce naturale ha conferito una grande forza evocativa alla storia, ha aiutato le emozioni ad imporsi.

Durante quel periodo hai conosciuto Ken Loach.
È stato un incontro inaspettato, Ken mi ha convocato per La Parte Degli Angeli (The Angels’ Share) nel suo ufficio di Soho. Non conoscevo bene il suo cinema, ero nervoso perché Ken aveva lavorato per tanti anni con lo stesso direttore della fotografia, mi ha offerto una tazza di tè e ha chiesto dove avrei posizionato la camera, non sapevo cosa dire, lui ha risposto «metterei la camera in quell’angolo e userei una lente 50 mm». In poche parole, mi ha spiegato la sua idea di cinema.

Come è stato sul set lavorare con Ken Loach?
Il primo giorno di riprese di La Parte Degli Angeli fu particolare, girammo solo fino alla pausa pranzo, Ken cadde rompendosi un braccio e fratturandosi le costole. Anche l’ultimo giorno delle riprese fu particolare, coincise con il mio quarantesimo compleanno. Dopo quello ho lavorato ad altri quattro film di Ken. Una Storia D’Amore e Libertà (Jimmy’s Hall) doveva essere l’ultimo film di Ken, ma ha una passione inesauribile. Dopo quel film la situazione del governo britannico cambiò rapidamente, Ken decise di rispondere con un film, Io Daniel Blake, dopo tre mesi di preparazione, in 24 giorni lo abbiamo girato. Io, Daniel Blake, ha messo in evidenza dei livelli di povertà del Regno Unito sconosciuti, ha risvegliato la coscienza collettiva, smosso l’opinione pubblica ed avviato un nuovo discorso politico. La funzione del cinema di Loach è sollevare questioni sociali, rendere la gente consapevole di quello che accade. Lavorare con Ken ti fa sentire che stai facendo qualcosa che aiuterà la gente a cambiare prospettiva.

C’è una scena molto forte nella Food Bank… 
È una scena basata su una testimonianza vera. Leggendo la scena sulla carta pensavo fosse eccessiva, ma Ken col suo modo di girare riesce a conferire autenticità a tutto. Abbiamo usato luci naturali. Ken è famoso per non usare mai le luci sul set, anche se non gli dispiace avere una luce che penetra dalla finestra. Ken posiziona la camera sempre in un angolo. Quando facciamo i sopralluoghi, subito cerca l’angolo da dove girare. Mi sono abituato agli angoli di Ken. Se potesse realizzare un film senza camera lo farebbe, non vuole far sentire all’attore la camera. Chiede sempre agli attori di vivere il momento, di non pensare alla camera. Spesso ascolta la scena ma non la guarda. È un genio, non è mai altezzoso, è sempre pronto ad offrirti una tazza di tè, è una persona unica, ho molta stima di lui. Credo che il suo modo di trattare gli altri sul set, la sua sensibilità, aiuta gli attori e tutti a lavorare con generosità. Ken ha vinto la Palma d’Oro con Io Daniel Blake, lo stesso anno avevo un altro film a Cannes in concorso American Honey di Andrea, che ha vinto il premio della giuria.

Con «The Favorite» hai guadagnato la tua prima nomination agli Oscar. Quando è iniziata la collaborazione con Yorgos Lanthimos?
Mi aveva mandato la sceneggiatura di The Killing Of a Sacred Deer, ma non ero libero. Mi ha contattato per La Favorita. La mia prima reazione è stata «non voglio fare un film di regine», ma ho letto la sceneggiatura e l’ho trovata divertente. Ero preoccupato perché Yorgos ha un forte senso estetico e aveva lavorato con un altro direttore della fotografia. Gli scrissi un’e-mail, spiegandogli che sarei stato un po’ come una nuova fidanzata per lui. Rispose «Bene questo primo film sarà la nostra luna di miele». Se non avessi fatto questo film avrei grossi rimpianti.
Dopo la prima settimana di riprese ho ricevuto una telefonata da mio fratello con la notizia della morte di mio padre. È stata la più grande tragedia della mia vita, perché era una persona molto importante per me. Mi sono allontanato dal set per una settimana. Tornato sul set abbiamo lavorato per sei settimane intensamente, sapevamo che stavamo realizzando qualcosa di bello. A Yorgos piace giocare e provare diverse soluzioni sul set, ma c’è un confronto costante. È un film in costume a basso costo, che ha avuto la fortuna di avere una buona distribuzione. Abbiamo ricevuto 10 nomination agli Oscar. È stata una bella esperienza cavalcare l’onda del successo, ma non vorrei farlo per molto, perché ti allontana dalla realtà.

Hai lavorato con un’altra icona del cinema indipendente britannico, Sally Potter.
Sì un’altra grande regista, con una visione molto personale, concentrata su quello che vuole raccontare. È un cinema coraggioso, sperimentale, quello di Sally Potter. Con The Roads Not Taken ha cercato di realizzare quattro film in uno.

A proposito di esperimenti cosa ne pensi del mondo ‘K’?
Avere una risoluzione definita non è garanzia di buon risultato, si rischia di concentrare la visione su dettagli che naturalmente non noteresti e che conducono fuori dall’immagine. Sta diventando anche un mezzo per vendere i film, e l’industria usa le innovazioni tecnologiche per vendere. Non sono interessato a questo, ma se mi venisse proposto di usare una camera 12K mi getterei nell’impresa, le camere digitali evolvono rapidamente, ma tutti continuano a girare in pellicola. Questo vuol dire molto.