Per ora non sono giunte rivendicazioni dell’attacco sventato venerdì sera dalle forze di sicurezza saudite alla Mecca: un attentatore suicida (secondo il ministero degli interni di Riyadh intenzionato a farsi esplodere nella grande moschea della città santa) è stato individuato e costretto a restare all’interno del palazzo di tre piani nel quartiere di Ajiad al Masafi usato come «base». Ha sparato contro la polizia per poi farsi saltare in aria: cinque poliziotti e sei civili sono rimasti feriti nel crollo della palazzina ridotta in macerie dall’esplosione.

MANSUR AL TURKI, ministro degli interni, ha parlato di una cellula terroristica divisa in tre gruppi, di cui due dispiegati a Mecca e uno a Gedda. I membri del gruppo – cinque persone – sono stati arrestati e sarebbero al momento sotto interrogatorio. Tra loro ci sarebbe anche una donna.
Se manca al momento una rivendicazione, la tempistica e il luogo del fallito attacco forniscono qualche elemento in più: il gruppo ha agito a due giorni dall’Eid al-Fitr, la notte che chiude il mese sacro di Ramadan.

Esattamente come accaduto un anno fa, quando tre attacchi in contemporanea furono lanciati dall’Isis tra Gedda e la Mecca, alla vigilia dell’Eid al-Fitr. Un momento altamente simbolico, un periodo in cui milioni di fedeli da tutto il mondo islamico, sunniti e sciiti, visitano i luoghi santi in Arabia Saudita.

LO SCORSO ANNO, il 4 luglio, un primo attacco colpì le forze di sicurezza dispiegate vicino alla moschea del profeta alla Mecca, uccidendo quattro poliziotti; nelle stesse ore a Gedda, a poca distanza dalla sede del consolato statunitense, un kamikaze feriva due agenti, mentre un altro saltava in aria fuori da una moschea nella città a maggioranza sciita di Qatif.

Da tempo ormai più di un osservatore ha evidenziato il rischio che paesi noti sostenitori di certi gruppi jihadisti sunniti in Medio Oriente vivono a causa del terrorismo di matrice islamista. Succede in Turchia, la più colpita del fronte sunnita, e succede in Arabia Saudita. A monte sta il ritorno di foreign fighters radicalizzati tra Siria, Libia e Iraq che riportano nei paesi che ne hanno permesso movimento e attività terroristica una visione dell’Islam ultraconservatrice e violenta.

UNA VISIONE – e qui sta la seconda motivazione del jihadismo «di ritorno» – molto vicina alle ideologie religiose di cui l’Arabia Saudita è culla e esportatrice seriale in Africa come in Medio Oriente e Europa, le medievali interpretazioni salafita e wahhabita che sono base ideologica a reti come Isis e al Qaeda. Non va dimenticata la lettura che il salafismo dà dei luoghi sacri in territorio saudita, visti come forme di idolatria e blasfemia (non a caso la stragrande maggioranza dei siti religiosi musulmani nella petromonarchia sono stati distrutti dai bulldozer di Riyadh).

IL TENTATO ATTACCO di venerdì sera si inserisce infine nella crisi del Golfo e nel progetto di un asse sunnita monolitico che abbia in Riyadh il suo leader indiscusso, a scapito del rivale Qatar, una Nato araba come immaginata dal presidente Usa Trump che non abbia come bersaglio l’Isis o al Qaeda, ma l’Iran.

IERI DOHA ha risposto alla lista di 13 richieste mosse da Arabia Saudita, Egitto, Bahrain e Emirati arabi definendole «inaccettabili e irragionevoli»: «Il blocco è volto a limitare la sovranità del Qatar – si legge nel comunicato del governo – Stiamo valutando il documento, le richieste contenute e le loro basi così da rispondere in modo appropriato».