Riecheggiavano ieri nel Daraya Palace di Riyadh le esortazioni del re saudita Salman all’unità delle sei petromonarchie sunnite contro la «minaccia iraniana». Le sue parole hanno fatto il giro del mondo. «Il regime iraniano – ha affermato – continua le sue politiche aggressive nella regione e mina la stabilità dei paesi vicini». Le monarchie del Golfo devono proteggersi dagli attacchi missilistici delle forze ostili, ha aggiunto il sovrano riferendosi ai ribelli sciiti yemeniti e a Tehran. I sauditi flettono i muscoli ma l’obiettivo principale del 40esimo vertice del Consiglio di cooperazione del Golfo non era tanto l’adozione di politiche comuni e più incisive contro Tehran, quanto porre fine al conflitto tra Arabia saudita e Qatar cominciato il 5 giugno del 2017 con l’annuncio di pesanti sanzioni di Riyadh e dei suoi principali alleati (Bahrain, Emirati ed Egitto) contro Doha accusata di mantenere rapporti con l’Iran e di «sostenere il terrorismo», ossia di appoggiare il movimento dei Fratelli musulmani storici avversari della monarchia Saud. Obiettivo mancato.

 

Il testo delle conclusioni raggiunte al summit non fa riferimento alla spaccatura Riyadh-Doha. Non sorprende. L’emiro Tamim, leader del Qatar, non si è presentato al summit e in sua sostituzione ha inviato il premier Abdullah bin Nasser al Thani: si tratta della più alta rappresentanza del Qatar in Arabia saudita da due anni a questa parte ma è anche una prova che le due parti restano distanti. Alcuni credevano la partita calcio tra Qatar e Arabia saudita, disputata la settimana scorsa a Doha per la Coppa delle Nazioni del Golfo, avrebbe contribuito in maniera decisiva ad aprire alla strada alla riconciliazione da sugellare al vertice di ieri. Così non è stato.

 

Eppure la lacerazione aveva cominciato a rimarginarsi. Piccole aperture, toni più moderati sui social, dichiarazioni meno nervose dei leader delle due parti. Quindi il mese scorso il ministro degli esteri del Qatar, Mohammed bin Abdul rahman Al Thani, ha effettuato una visita nella capitale saudita e fatto un’offerta per chiudere la frattura. E poco dopo l’emiro Tamim ha ricevuto da re Salman l’invito a partecipare al Ccg. Invito non accolto. La soluzione della crisi non è ancora a portata di mano.

 

Gli interessi comuni sono forti. Re Salman e l’erede al trono Mohammad dopo l’attacco con droni e missili che lo scorso 14 settembre aveva paralizzato circa la metà della produzione petrolifera saudita, hanno dovuto prendere atto della vulnerabilità del regno. E di fronte alla decisione di Trump di non rispondere all’Iran (ritenuto il responsabile del raid), hanno scelto di rinsaldare i rapporti con il Qatar in nome di una difesa comune di tutto il Ccg. La fine delle ostilità tuttavia resta lontana. L’emiro Tamim sa che il tempo gioca a suo favore e di aver vinto ai punti il match con il potente vicino. Sino ad oggi Doha non ha accolto nemmeno una delle 13 condizioni poste due anni fa da Riyadh per porre termine all’embargo economico.

 

Da registrare la presa di posizione di re Salman sulla questione palestinese. Da tempo si parla di una stretta alleanza dietro le quinte tra Riyadh e Tel Aviv ma ieri il re saudita ha ribadito il sostegno del suo paese a uno Stato palestinese indipendente con Gerusalemme est come capitale. E ha  promesso che non avallerà alcun “piano di pace” degli Stati Uniti che non affronti lo status di Gerusalemme o il diritto al ritorno dei profughi.