Troppi film, ma soprattutto troppi film belli. Scelte amletiche ogni volta che si consulta il programma di questa edizione di Cinema ritrovato. Ma il 1917 è un anno troppo importante nella Storia e nella storia del cinema per non far tesoro della rituale rassegna dedicata ai film che compiono cent’anni e spaziare tra le cinematografie selezionate.

 

 

Che il 1917 sia un anno-chiave nella storia di molti paesi è ovvio: in Italia con Caporetto siamo più vicini alla disfatta che alla vittoria, finché le autorità non capiscono che siamo entrati nell’era del consenso e che la repressione al fronte non è un buon viatico per combattere per la patria. In Russia invece siamo alle prese con le due rivoluzioni, quella menscevica e quella di ottobre, e quindi sulla soglia di un mondo che cambia per sempre.

 

 

Quello che non tutti sanno è che anche nella storia del cinema si verifica un ribaltamento di fronte, cosi drastico da aver cancellato la memoria di ciò che lo aveva preceduto. Quando cioè il cinema europeo (nell’ordine francese, italiano e svedese) ancora dominava gli schermi americani e mondiali e solo da poco era cominciata la rimonta americana, guidata dagli immigrati ebrei e dagli imprenditori indipendenti. Allorché le truppe americane entrano in guerra il progetto di un «impero irresistibile» come lo definisce Victoria De Grazia, fatto di consumismo e di una specifica idea di democrazia da esportare nel mondo, è già formalizzato, e i film sono da subito l’avanguardia seducente di questo imperialismo mascherato da modernità.

 

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I film italiani del 1917 rappresentano uno spaccato significativo del cinema di allora: Malombra (Carmine Gallone) con la sinuosa e bellissima Lyda Borelli, regina del teatro simbolista e Diva, contrastata solo dalla più eclettica Francesca Bertini. Adattamento del gotico italiano firmato da Fogazzaro, con tanto di castello e paesaggi preraffaelliti, Malombra rappresenta quel cinema del Decadentismo altoborghese in cui le dive vivevano davvero, avendo sposato i loro ricchi e/o aristocratici produttori.

 

 

Ancor più rappresentativo della produzione nazionale, La tragica fine di Caligula imperatore (Ugo Falena) uno dei più crudeli film storici dedicati a imperatori folli, che in questo caso collegano la persecuzione dei cristiani a una estenuante danza erotica della famosa Stacia Napierkowska senza veli, offerta agli appetiti dell’imperatore da due schiavi neri lucidi nella loro nudità, distesa su un vassoio.
La guerra e il sogno di Momi (Segundo de Chomon) rappresenta invece un cinema di sperimentazione (burattini animati a passo uno) e di ottima fattura, soprattutto fotografica e di messa in scena, con Momi bambino riccioluto – buon italiano vestito alla marinara- che sogna ( ma in realtà è un incubo bizzarro) eserciti di soldatini in battaglia, trincee e gas.

 

 

L’inatteso trova spazio in L’anello di Pierrot (Edoardo Bencivegna), un film non a caso proposto nella giornata transgender, assieme ai documentari sulle operaie in cappellino e abito ancora lungo fino a terra, che preparano i proiettili e le granate, disciplinate dal ritmo della macchina, o i soldati al fronte che si distraggono con spettacolini en tranvesti. Pierrot infatti è interpretato da Sandrina Albertini-Bianchi, con le sue curve morbide sotto il costume bianco e la calottina nera a nascondere i capelli, ma con un trucco degli occhi e delle labbra che non lascia dubbi sulla sua femminilità. Eppure Pierrot nel film è un uomo, che bacia sulla bocca diverse donne, fa lo sciupafemmine e lascia a casa la sua nidiata di Pierrotini e la sua fedele Colombina, per tornare poi, povero e affamato, da loro. Sono proprio i Pierrotini che gli suggeriscono di cambiar vita e diventare un uomo serio e laborioso, così egli si trasforma in falegname. Una lezione implicita al cinema italiano richiamato ad assumere una sobrietà capace di affrontare la dura realtà del lavoro e a non disperdersi in sdolcinate mandolinate alle finestre di donne belle ricche e superficiali?

 

 

 

 

 

Ma naturalemente il cinema che tutti aspettavano di rivedere era il cinema russo del 1917, alle prese con le rivoluzioni e al capolinea di un mondo destinato a scomparire. Evgenij Bauer (Il Rivoluzionario e Verso la felicità girato in Crimea con un Kulesov agli esordi) e Jakov Protazanov (Fermate il sangue) non possono ignorare del tutto nei loro melodrammi la realtà del momento e raccontano, tra umanesimo tolstojano e il fatalismo tragico che li contraddistingue, eroici sacrifici di rivoluzionari condannati alla Siberia. O la malinconia di attori mutilati come il Muzuchin nel ruolo di un attore cinematografico che ha perso un braccio e al quale si propone di fare il regista, mentre la moglie flirta inevitabilmente con il produttore in Dietro lo schermo di Azagarov – ultimo film in Russia del celebre attore che poi fuggirà a Parigi, come altri artisti di questo cinema, sostituiti da una nuova scuola cui lasciano in eredità una recitazione al top e un gusto estetico nella composizione dell’inquadratura che non ha pari.

 

 

 

 

Sempre del 1917 e ugualmente tragico nel finale l’unico film polacco sopravvissuto con Pola Negri. La bella e allora giovanissima attrice interpreta una ragazza che sfugge alla grettezza della vita in campagna e va in città per diventare diva del varietà (col suo vero nome in ghirlande funeree attaccate alle pareti) ma muore per mano del suo persecutore.
Fresca e bella, Pola Negri si muove con una spontaneità che non sempre si trova nelle sue interpretazioni americane e che rivela una maturità stilistica del cinema muto polacco cui forse varrebbe la pena di dedicare uno sguardo più approfondito.
Ma perché non parlare delle altre perle che il festival ha offerto: le immagini tagliate del mitico Atalante di Vigo, o Paparazzi in cui Jacques Rozier riprende la curiosità molesta e provinciale dei paparazzi sul set de Il Disprezzo con la diva Brigitte Bardot e lo scontroso Jean Luc Godard, o la fantastica coloratissima fotografia di Monterey Pop presentato come un concerto in differita al pubblico partecipe e plaudente della Piazza Grande.