Una città piena di luci, la radio di stato saluta con voce suadente i cittadini, e li rassicura: Dio veglia su tutti, e il Presidente veglia su di loro. Dall’alto l’uomo osserva il Paese di cui è padrone e per distrarre il nipotino dal gelato che gli è vietato – troppi zuccheri nel sangue – gli fa fare un gioco: al telefono come fa lui può ordinare di spegnere le luci su tutta la città e poi di riaccenderle. Il bimbo ride, tutto questo un giorno sarà tuo promette il vecchio, ma all’improvviso qualcosa si inceppa, dall’altra parte del filo cade il silenzio e a illuminare il buio rimangono solo i lampi degli spari e delle bombe. Racconta Mohsen Makhmalbaf che The President più che sui dittatori è un film sulla violenza, quella dei dittatori e quella di chi combatte per rovesciarli. «I dittatori abituano i loro cittadini alla violenza, tanto che alla fine anche questi ultimi non possono farne a meno. Se guardiamo ai recenti avvenimenti in Siria, in Iraq, in Libia, in Egitto o in Afghanistan, e in tanti altri luoghi del pianeta ci rendiamo conto che ciò che prima sembrava una vittoria si è trasformato in una tragedia, e la strada verso una democrazia in questi paese,dopo la dittatura, appare sempre più complicata. Il nostro è un mondo violento, dove gli unici simboli che ci parlano di pace rimangono Gandhi o Mandela. Questa è la cultura che dovremmo far crescere».

Tanti anni fa Mahkmalbaf è stato una Guardia della Rivoluzione che rovesciò lo scia di Persia, poi è diventato una delle voci critiche contro il governo di Tehran con i film, i suoi e quelli della figlia Samira, le dichiarazioni pubbliche, le rivendicazioni politiche cosa che gli è costata censure, attacchi personali, fino all’esilio in Europa. Volontario, come può esserlo ogni esilio, a spiegarlo basterebbe il fatto che alla moglie non è consentito tornare in Iran a salutare i genitori, gravemente malati.

The President, film di apertura di Orizzonti è anche il ritorno alla regia del cineasta iraniano a lungo protagonista coi suoi film della scena mondiale. Lo ha girato in Georgia, ma senza cercare di appropriarsi dell’umorismo degli autori di quel paese, anche se alcuni passaggi li omaggiano con grazia – quando il nipotino del dittatore sulle note della marcetta di regime comincia a camminare verso i soldati da cui si nascondono facendo il saluto militare. La cifra di Mahkmalbaf qui è semplice, e la sua metafora essenziale: cosa significa fare la rivoluzione, quale è la sostanza della rivoluzione, cosa comporta una rivoluzione?

C’è, appunto, lo specchio del suo vissuto da rivoluzionario, come gli esiti di quella rivoluzione che non sono stati quelli sperati. E ci sono le Rivoluzioni che attraversano e hanno attraversato in questi ultimi anni il mondo arabo divenute in molti casi guerre civili e religiose.

La scelta provocatoria è quella del punto di vista, Makhmalbaf come protagonista sceglie il dittatore in fuga col nipotino, il piccolo Dachi interprete straordinario. Non c’è empatia però nei confronti di quest’uomo arrogante e crudele come tutti i dittatori, che con la famiglia ha spogliato – letteralmente – il suo Paese, fatto ammazzare migliaia persone accusate di essere spie o traditori perché oppositori politici, messi in galera, torturati, lasciati morire…Corruzione, conti in Svizzera, poteri da clan familiare , il repertorio delle dittature… Dall’alto del suo palazzo, dove al bambino hanno insegnato a far bere prima chi gli offre il bicchiere per non rischiare di esser avvelenato, il Presidente non conosce la realtà che è fuori, la miseria, la rabbia, la frustrazione, la fame che come gli spiegherà qualcuno rende cattivi.

Nonno e bambino attraversano così quel paese immaginario simile a tanti altri «reali»- al mondo, col gigantismo dei palazzi e le strade senza asfalto, i greggi e le persone in fuga, vestiti di stracci spacciandosi per musicisti di strada. Intanto la Rivoluzione è diventata la violenza dei militari che rubano, stuprano, uccidono cercando il dittatore che a volte somiglia a Saddam Hussein.
Il ragazzino di fronte all’odio per il presidente fa domande a cui il vecchio fatica a dare una risposta. Tappati le orecchie, dice, ma lui insiste e chiede cosa è la tortura, cosa sono gli oppositori politici, mentre scopre che i bimbi come lui vestono stracci e raccolgono pietre.

E lo sguardo di Dachi, travestito da ragazzina che balla per la libertà, pensando sempre alla sua amichetta, la piccola ballerina Maria con cui divideva a Palazzo la vita, è l’obiettivo che interroga il mondo, la realtà, le sue sfumature ambigue e le pretese di chiarezza, costringendo anche il vecchio a una presa di consapevolezza.

Risposte forse, almeno immediate, non ce ne sono, non per Makhmalbaf almeno. Rimane invece la necessità di un pensiero capace di farsi domande, di guardare oltre lo schema facile, e troppo spesso compiaciuto, dell’ideologia.