Nel 2013 a Elsen Tasarhai è ricomparso un lago. I giovani di questo piccolo centro del Bulgan, nel cuore della Mongolia, a fatica riuscivano a credere alle descrizioni degli anziani. Proprio lì dove per decenni hanno visto solo sterpaglia, sabbia, rocce e arida terra bianca, sarebbe esistito, in passato, un lago grande.
Nella scorsa primavera il lago è riapparso. E intorno al lago una vasta area verde di piante e arbusti selvatici. Per la prima volta in molti decenni il deserto si è ritirato. Ma come è possibile che un’arida distesa di terra bianca si sia trasformata in pochi anni in uno spazio verde e acquitrinoso? In Mongolia oltre il 70% del territorio nazionale è ricoperto da aree desertiche e semidesertiche che, negli ultimi decenni, non hanno mai smesso di avanzare, anche a causa del nuovo boom delle estrazioni minerarie. Almeno quattro volte l’anno, spaventose tempeste di sabbia gialla devastano territori sempre più estesi fino a raggiungere, ormai, Cina e Corea. Di fronte a una tale potenza distruttiva la domanda sembra quasi retorica: esiste un modo per lottare contro l’espansione del deserto o la sua avanzata è ormai irreversibile?

Come arginare l’avanzata

Nel 2007 il professor Baataryn Chadraa (allora presidente dell’Accademia delle Scienze di Mongolia), dopo aver sperimentato diversi progetti di riforestazione per arginare l’avanzata del deserto del Gobi, decide di testare il metodo della Policoltura MA-PI, un modello di agricoltura proposto sin dal 1970 dal professor Mario Pianesi – ideatore, fondatore e presidente dell’associazione internazionale Un Punto Macrobiotico (Upm). Lo scopo della Policoltura è quello di riportare, quanto più possibile, l’interazione fra uomo e habitat verso una condizione di equilibrio. Alla base di questo metodo stanno tre scelte precise: la riproduzione spontanea dei semi (dedicandovi almeno un 10% dei terreni coltivati), il recupero di varietà antiche e autoctone di cereali, ortaggi e legumi (coltivate consociate a rotazione naturale, senza prodotti chimici di sintesi) e infine la piantumazione, nei terreni coltivati, di siepi e alberi da frutto in file a rete, con distanze di 5/10 metri, a seconda dell’esposizione al sole, dell’umidità e del pH del terreno. Quest’ultimo accorgimento è particolarmente importante perché ogni albero attira e trattiene umidità, veicola le diverse correnti acquatiche (sotterranee e aeree), facendo così abbassare, negli anni, la temperatura dell’aria e del terreno attorno a sé.
Il professor Baataryn Chadraa viene dunque in Italia e rimane subito affascinato dal processo di inselvatichimento e piantumazione che questo metodo di ricostruzione naturale di un habitat ormai desertico, prevede. Parte così un primo accordo di cooperazione con Mario Pianesi.

La sua prima indicazione al professor Chadraa è stata quella di individuare delle zone desertiche poco distanti da aree dove siano ancora presenti forme di vita vegetale, preferendo quelle con alberi secolari. La condizione migliore sarebbe quella di iniziare le piantumazioni partendo dagli argini dei fiumi. La seconda indicazione è stata invece quella di recintare le superfici prescelte per permettere alla natura, protetta dal passaggio di animali da pascolo come dall’attività umana, di potersi esprimere liberamente.
Seguendo queste due semplici indicazioni, nel 2008, l’Accademia delle Scienze di Mongolia individua tre differenti aree semi-desertiche vicino a colline e montagne ancora parzialmente alberate: la prima si trova a Nord, nella provincia di Darkhan; la seconda, nel centro della Mongolia, nella provincia di Bulgan; la terza a Sud, nella Provincia di Umnugobi. In queste tre superfici protette, sono state re-introdotte piante con caratteristiche simili a quelle degli alberi secolari già presenti o che comunque popolavano quelle stessa aree in passato. Gli scienziati hanno raccolto i semi degli alberi e degli arbusti delle aeree circostanti e in soli cinque anni hanno piantato più di 60.000 essenze arboree in 65 ettari di terreno. In ogni zona prescelta sono stati poi creati dei filari di alberi, già con un anno di età, disposti da due a cinque metri di distanza l’uno dall’altro.

Riforestazione rapida

Può sembrare incredibile, ma con queste semplici operazioni, in soli cinque anni, il deserto si è fermato. La scelta di iniziare a seminare in zone aride non lontane da aree montagnose alberate, così come l’utilizzo di semi di piante già presenti nelle aree circostanti, ha permesso un processo di riforestazione efficace e rapido. Nonostante condizioni climatiche particolarmente avverse (in estate la temperatura raggiunge i 45°C ed in inverno scende a – 30°C), le piante sono cresciute e si sono moltiplicate. Le recinzioni, che hanno impedito il passaggio agli animali da pascolo, e la limitazione allo stretto indispensabile di ogni attività umana, hanno permesso il ritorno di piante e specie animali che erano scomparse da decenni e che ora si stanno sviluppando spontaneamente in simbiosi, restituendo vita a tutta la zona.

Gli studi dei parametri testati in ogni centro sperimentale (analisi dell’aria e delle condizioni metereologiche, analisi dell’acqua, dei suoli, lista dei vegetali spontanei e percentuali di copertura, lista di ortaggi e di alberi seminati, lista di insetti e animali selvatici) segnalano un radicale miglioramento delle condizioni generali dell’habitat e della biodiversità vegetale e animale. Ad Elsen Tasarhai il miglioramento è stato così deciso da permettere quest’anno, il ritorno in superficie dell’acqua che, in primavera, ha interamente ricoperto un campo, formando una palude.

Il silenzio dei media italiani

Non stupisce che il distretto di Rashaant (dove si trova la zona di Elsen Tasarhai) abbia conferito a Mario Pianesi, proprio quest’anno, la cittadinanza onoraria. Così come non stupisce che l’Accademia delle Scienze mongola abbia conferito sempre a Pianesi la laurea ad honorem come scienziato e dottore e che lAssociazione per la ricerca e la sperimentazione nella lotta alla desertificazione (Reacd) lo abbia nominato, nel 2011, membro onorario. Stupisce invece il silenzio generale dei nostri media sui risultati straordinari di questo progetto semplice, efficace e poco costoso, integralmente sostenuto da Pianesi senza alcun aiuto dallo stato italiano o dall’Unione europea.

Del resto pochi sanno che la prima azienda agricola biologica italiana è stata fondata nelle Marche sempre dallo stesso Pianesi, nel 1975. E che la sua dieta Ma-Pi 2, che utilizza la macrobiotica in forma terapeutica su pazienti adulti con diabete mellito di tipo 2, sta dando ottimi risultati, tanto che il Centro internazionale studi diabete (Cisd) ha consegnato un premio speciale per la ricerca a Pianesi, «per il suo alto contributo alla ricerca scientifica sulla dieta come prevenzione e terapia delle malattie metaboliche».
In un momento così drammatico della nostra storia politica e culturale, abbiamo come non mai bisogno di visionarietà e realismo. Pianesi ci insegna che con pochi gesti semplici, perché intelligenti, si può perfino fermare un deserto.