Cade il segreto pontificio sui casi di violenza e abuso sessuale sui minori commessi da preti e religiosi. Lo ha stabilito papa Francesco con l’Istruzione Sulla riservatezza delle cause, promulgata lo scorso 6 dicembre e resa nota ieri dalla sala stampa della Santa sede.
D’ora in poi il Vaticano e i vescovi di tutte le diocesi del mondo non potranno più opporre il segreto pontificio – di fatto l’equivalente del segreto di Stato, resta intatto invece il segreto confessionale – e negare ai magistrati l’accesso ai documenti e agli atti dei processi canonici relativi ai reati di violenza e abuso sessuale sui minori conservati negli archivi della Santa sede e delle diocesi.

Si tratta di una decisione di grande rilevanza, richiesta da tempo anche dalle associazioni delle vittime dei preti pedofili, che infatti esprimono soddisfazione per quello che ritengono un primo importante passo della Chiesa cattolica sul contrasto alla pedofilia del clero. Ma restano ancora altre decisioni da prendere, a cominciare dall’obbligo di denuncia dei preti pedofili alle autorità civili.

La decisione di emanare l’Istruzione Sulla riservatezza delle cause è stata presa da papa Francesco il 4 dicembre, durante l’udienza a monsignor Edgar Peña Parra, sostituto per gli Affari generali della Segreteria di Stato, una sorta di ministro degli Interni vaticano. Ed è stata promulgata dal segretario di Stato, cardinale Pietro Parolin, due giorni dopo.

Essa prevede che non siano più coperti dal segreto pontificio «le denunce, i processi e le decisioni riguardanti i delitti» di abuso e violenza sessuale sui minori e sulle «persone vulnerabili» e di «produzione, esibizione, detenzione e distribuzione, anche per via telematica, di materiale pedopornografico». Quindi tutti i reati di pedofilia e pedopornografia contro i minori, la cui età – con un secondo provvedimento del pontefice – viene elevata dai 14 ai 18 anni.

Viene mantenuto il «segreto d’ufficio» – per «tutelare la buona fama, l’immagine e la sfera privata di tutte le persone coinvolte» –, ma esso «non osta all’adempimento degli obblighi stabiliti in ogni luogo dalle leggi statali, compresi gli eventuali obblighi di segnalazione, nonché all’esecuzione delle richieste esecutive delle autorità giudiziarie civili». Cioè non ci si può rifiutare di rispondere ad un magistrato che sta indagando su un prete pedofilo.
Infine da parte dell’autorità ecclesiastica «non può essere imposto alcun vincolo di silenzio» alla vittima e ai testimoni, come invece si è spesso verificato, contribuendo così all’insabbiamento dei processi.

L’intervento pontificio è diretta conseguenza del summit internazionale sulla pedofilia nella Chiesa, convocato in Vaticano da papa Francesco nello scorso febbraio. Al termine di quell’incontro, a cui parteciparono tutti i cardinali della Curia romana, i presidenti delle Conferenze episcopali, i capi delle Chiese orientali, i superiori e le superiori generali delle congregazioni religiose di tutto il mondo, non vennero prese decisioni operative (del resto non era quella la sede). Ma da molti, a cominciare dal cardinale tedesco Reinhard Marx, venne chiesta, fra le altre cose, la revisione della normativa sul segreto pontificio, risalente a Paolo VI.

Alla fine di marzo, Francesco stabilì l’obbligo di denuncia all’autorità giudiziaria penale dei preti pedofili, ma solo all’interno del Vaticano: una misura, quindi, con un alto significato simbolico ma con un valore pratico pressoché nullo, dal momento che riguarda solo quello che accade dentro le mura leonine. Ora arriva, stavolta estesa alla Chiesa universale, la fine del segreto pontificio per quando riguarda i reati di violenza e abuso sessuale sui minori.

Non c’è ancora l’obbligo di denuncia – l’altra misura chiesta a gran voce dalle associazioni delle vittime, che continua ad essere ignorata dalla Santa sede e da molti Stati –, ma d’ora in poi, di fronte alle richieste di un magistrato, cardinali, vescovi e superiori religiosi non potranno più tacere, trincerandosi dietro lo scudo del segreto pontificio. Né il Vaticano, in presenza di una rogatoria internazionale, potrà rifiutare l’invio di documenti e atti processuali riguardanti reati di abuso sessuale sui minori. Né le Curie diocesane potranno chiudere le porte in faccia agli inquirenti che indagano sui preti pedofili.

Si tratta di una «decisione epocale», spiega all’Osservatore romano monsignor Charles Scicluna, arcivescovo di Malta, segretario aggiunto della Congregazione per la dottrina della fede, da sempre impegnato nel contrasto alla pedofilia del clero. I documenti non diventano «di dominio pubblico, ma viene facilitata la possibilità di una collaborazione più concreta con gli Stati». Cosa che finora non è accaduta quasi mai.