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Rivoluzione e resistenza

Rivoluzione e resistenza"Sem titulo" di Luciano Scherer e Maira Flores

Videoarte Al FUSO di Lisbona » evoluzioni poetico-politiche in videoarte e viaggio tecnologico

Pubblicato quasi 6 anni faEdizione del 29 settembre 2018

Ha compiuto dieci anni FUSO, il festival di videoarte internazionale di Lisbona. Fra la fine di agosto e i primi di settembre, all’aperto, in luoghi bellissimi e ricchi di suggestioni, chiostri o giardini di musei, fra arcate e alberi, balaustre sulle luci notturne del Tago, statue, architetture antiche e moderne. Il titolo di quest’anno: «(R)evolução e (R)e(x)sistência na Videoarte».
E, in effetti, di evoluzione/rivoluzione, di esistenza e di resistenza si è trattato. Il festival, diretto da Antonio Câmara e Jean-François Chougnet e coordinato da Rachel Korman, è organizzato in programmi specifici, due ogni sera, allestiti da curatori – quest’anno, salvo per la serata di Chougnet, tutte donne. I temi politici sono stati assai presenti, e una sorta di sottotesto, nella discussione intorno alle opere, è stata l’idea stessa di videoarte. Come esiste e resiste? Come si evolve? Cosa diventa? La gran quantità di lavori di taglio performativo o documentario (ma sappiamo come questo termine sia inadeguato) ha fatto discutere i partecipanti sulle ibridazioni e le innovazioni nel linguaggio e sulle metamorfosi di un’arte video che del resto è sempre stata estranea a gabbie e a definizioni: resistendo, appunto, alle costrizioni dei «generi». Lo si è verificato anche nel programma «Reload», curato dalla portoghese Marta Mestre: opere odierne delle autrici e degli autori premiati da FUSO nel corso del tempo, con una oscillazione fra il poetico e il politico, la performance e l’approccio surreale, inquietante o divertito. Come nel programma riservato ai brevissimi video degli studenti di Ar.Co, Centro de Arte e Comunicação Visual di Lisbona.
La videoinstallazione di Daniel Blaufuks, Mein Kampf, allestita nel quartiere di Belém e inaugurata in apertura di FUSO, ripropone la condanna al rogo dei libri, non confinata solo alla Germania di Hitler, e non vissuta solo in passato. Come un’indicazione per un festival ancorato alle questioni dell’oggi e alla rilettura delle resistenze di ieri.
Lori Zippay, direttrice della storica Electronic Arts Intermix (da anni porta qui da New York preziosi reperti video e documenti rari) ha presentato il programma «The Feeling of Power: Bodies of Resistance», dagli anni Sessanta a oggi – dalla guerra del Vietnam all’AIDS al razzismo – con opere in cui il disagio e la protesta sono rappresentati col linguaggio del corpo, in performance spesso alternate a immagini dai mass-media e a scritte sullo schermo: una «videoguerriglia» che sfugge allo stereotipo della controinformazione più diffusa. Viaggio in cinquant’anni di «corpi di resistenza» che è anche, ha fatto notare Lori Zippay, viaggio nelle evoluzioni tecnologiche, dal 16mm al video analogico al digitale. Sempre intorno al corpo i «dialoghi di mani» proposti da Kiki Mazzucchelli, curatrice di origine brasiliana, ora a Londra, con una serie di «Hand Movies» (da Yvonne Rainer, l’ispiratore), a partire da Richard Serra col suo Hand Catching Lead (1968), per arrivare all’enigmatica e surreale lingua di gesti inventata da Rivane Neuenschwander per il suo Erotisme (2014).
FUTURO
Evanthia Tsantila (greca, vive a Berlino) ha illustrato due opere, sotto il titolo complessivo di «Immaginare il futuro» che ritraggono la Grecia prima e dopo la grande crisi economica, fra momenti di una serenità che oggi appare perduta e distopiche visioni di un’Atene futura priva di abitanti. Taglio decisamente «documentario» per la selezione di Reem Fadda, curatrice giordana. Decolonizzazione, verità, normalità, diritti umani, guerra e armi chimiche sono narrati in modo laterale, attraverso la vita e le consuetudini di un gruppo di adolescenti, le ricerche di un collettivo di architetti, l’esperienza in un alloggio per rifugiati. Più sperimentale, e l’unico realizzato in Giordania, Rubber Coated Steel, di Lawrence Abu Hamdan, che presenta, in una composizione visiva complessa, una ricerca sonora relativa all’uccisione nel 2014, in Cisgiordania, di due ragazzi palestinesi da parte dell’esercito israeliano. Analisi sonora per definire il tipo di pallottole – reali o di gomma – e le responsabilità.
Nel giardino del Museu de Arte Antiga, con vista sul Tago notturno e il profilo luminoso del ponte 25 aprile, Bernadette Caille, curatrice francese, ha presentato lo splendido programma sui cinegiornali del Maggio francese, qui per la prima volta (in selezione) fuori dalla Francia in versione restaurata dopo il ritrovamento (in tutto sono 111), e dopo la prima alle Rencontres Photographiques di Arles. Anonimi, ma com’è noto talvolta costruiti con l’apporto di Godard, Marker, William Klein. Bobine 16mm di tre minuti: folgorazioni mute di fotografie splendide, con didascalie incisive e sferzanti per poesia e lucidità politica.
Sempre affollatissima la serata dei video in concorso, la «open call» portoghese curata da Chougnet: 24 video scelti fra i quasi 200 arrivati. Memoria, identità, violenza, inquietudine. E mescolanza di linguaggi e generi: animazione, performance, finzione, fotografia, televisione; astrazioni, realismo. Il primo premio è andato a Sem título, dei giovani Luciano Scherer e Marta Flores, 5’. Ritrae, col solo suono dell’ambiente, corpi che il mare porta sulla spiaggia, corpi inerti di performer che oscillano come morti fra l’acqua e la sabbia, ricordando i corpi delle persone vere scaraventate nella morte e nell’oblìo dal calcolo, dalla crudeltà e dall’indifferenza del potere. Un lavoro onesto e sommesso, partecipe, lontano dalle mode, dagli slogan, dalle demagogie.
STORIE DI LUCE
Si attraversa il Tago e si passa di là, lasciandosi alle spalle Lisbona con le sue colline. Qui, il lungofiume si snoda fra rovine di case ornate di graffiti colorati e spiazzi erbosi ben allestiti, e dopo il ristorante «Ponto final» coi suoi tavolini sul fiume che già sembra mare ecco un edificio trasformato in atelier per artisti. Irit Batsry, di origine israeliana ma da trent’anni a New York e da tempo fra New York e Lisbona, ha qui il suo studio. Videoartista attiva nel mondo e fra le più importanti internazionalmente, espone la sua installazione Screen (2018), trina di pellicola attraversata da una videoproiezione. Consulente artistica di FUSO e presenza generosa e costante al festival, Batsry dirige «Loops Lisboa», che si tiene da qualche anno in autunno: un festival dedicato alle forme audiovisive basate sulla ripetizione. Ma qui ha intrapreso anche una fase nuova del suo lavoro, incentrata sul riutilizzo di vecchie pellicole, trovate nei mercatini, amorevolmente trattate: su tela, su superfici trasparenti; intrecciate e combinate come in nuove forme di pareti o di schermi in videoinstallazioni; con nastri riflettenti che le percorrono, raddoppiandone il senso. E perfino le vecchie scatole arrugginite dei film diventano per questa artista fonte di ispirazione. Videoarte che si lascia attraversare dal cinema, cinema attraversato dal video, pellicola come materia da lavorare, trasparenza concreta.

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