Lenin Moreno è primo, ma solo fra tre giorni si saprà se è il nuovo presidente dell’Ecuador o se dovrà andare al ballottaggio, il 2 aprile. Alle elezioni di domenica, il candidato di Alianza Pais ha preso più voti degli altri 8 aspiranti alla presidenza, ma non ha raggiunto il 50% più uno, né – fin’ora – una maggioranza di oltre il 40% con un distacco del 10% dal secondo candidato più votato. Al momento per noi di andare in stampa, con l’88,4% delle schede scrutinate (36.279 su un totale di 41.042) aveva totalizzato il 39,11% contro il 28,30% del candidato delle destre, il banchiere-imprenditore Guillermo Lasso (Creo): i 10 punti di distacco c’erano, ma non il fatidico 40% previsto dalla legge, che potrebbe arrivargli in extremis.

AL TERZO POSTO, Cynthia Viteri, del Partito Social Cristiano, con il 16,32%. Quarto, il socialdemocratico Paco Moncayo, con il 6,77%. L’ex militare, ex sindaco di Quito, ha corso per l’alleanza Acuerdo por el Cambio con cui ha riunito anche pezzi di estrema sinistra. I suoi voti potrebbero essere preziosi per Moreno in un eventuale secondo turno. Moncayo ha però già fatto sapere che non farà alleanze con nessuno dei due schieramenti. Al contrario, Viteri ha dichiarato che voterà per Lasso. Gli altri candidati hanno totalizzato percentuali che vanno dal 4,79% di Abdala Bucaram al 3,20% di Ivan Espinel, allo 0,76% di Washington Pesantez e all’identico risultato di Patricio Zuquilanda. Pablo Pozo, presidente del Consejo Nacional Electoral (Cne), ha invitato i due principali candidati a una riunione e sta aggiornando costantemente i cittadini.

LE ELEZIONI hanno interessato oltre 12 milioni di aventi diritto, chiamati a eleggere oltre al presidente e al suo vice, anche 137 deputati e 5 rappresentanti al Parlamento Andino. Sono inoltre andati alle urne 168.432 residenti all’estero. Per loro, il voto era facoltativo (obbligatorio, invece, per che vive nel paese, a partire dai 18 anni e fino al 65). Quel 3% di migranti può ora risultare decisivo nello spoglio finale. Per il Cne, si è astenuto dal voto solo il 17,46%.

SI È VOTATO anche per la definizione di un patto etico contro i paradisi fiscali. Dallo spoglio finora realizzato, risulta che i cittadini hanno risposto Si (54,65% contro il 45,35% di No) al divieto per tutti i funzionari pubblici di trasferire capitali nei paradisi fiscali ( 3 miliardi di dollari solo tra il 2014 e il 2015). Su questa base, il Parlamento dovrà perciò riformulare entro un anno la Ley Organica de Servicio Publico, il Codigo de la Democracia e altre leggi inerenti a cui ogni eletto dovrà attenersi, pena la destituzione. Il referendum è stato proposto dal presidente in scadenza Rafael Correa nei principali organismi internazionali e ha trovato il consenso anche del papa Bergoglio.

PER QUESTE ELEZIONI, Correa ha polemizzato con le destre europee, che gli hanno rimproverato l’assenza di osservatori Ue: «Si tratta di una visione colonialista – ha detto Correa – visto che non c’è reciprocità. Durante le elezioni in Europa, non ci sono osservatori latinoamericani». Respinte anche le dichiarazioni di una ex direttrice del Cne venezuelano, l’antichavista Ana Mercedes Díaz, che si è recata a Quito come «osservatrice indipendente» e che ha definito il sistema di voto ecuadoriano «totalmente viziato». Per tutti gli altri osservatori (Unasur e Osa) le elezioni sono state regolari e si sono svolte nella calma, nonostante la tensione della vigilia per la busta esplosiva recapitata alla presidente dell’Assemblea Gabriela Rivadeneira e l’accusa di aver provocato violenze in alcuni seggi rivolta dalla coalizione di governo al partito Creo.

MA LA DOMANDA che corre, sul filo dei voti, va oltre la scadenza elettorale: sarà irreversibile la «rivoluzione cittadina» o le destre avanzeranno anche nei paesi che si richiamano al «socialismo del XXI secolo»? In Ecuador – ha detto l’intellettuale argentino Atilio Boron – «si svolge una battaglia simile a quella di Stalingrado contro i nazisti».