Impressiona che, all’esordio del Novecento, circolassero con insistenza e fossero oggetto di un carotaggio collettivo temi che oggi sembrano superati per troppa ambizione. Dall’osservatorio dell’anno 2022, le storie raccolte da Kristen R. Ghodsee, nel volume Valchirie rosse. Le rivoluzionarie dell’Est Europa, con la prefazione di Noemi Ghetti (Donzelli, pp. 224, euro 28, traduzione di Mauro Pace) sembrano fatte di pure avanguardia.

Donne, in rivolta per professione, che hanno attraversato i temi della famiglia, della poligamia, dei rapporti di potere dentro i sogni comunisti e socialisti, dell’educazione e della cura, come se fossero spogliate di qualsiasi dogmatismo, dentro alla spietata onestà di una indagine fatta di avanzamenti e fermi. Storie piene di desideri e avanguardie, ma che non tacciono anche i tradimenti a sé stessi che ogni pratica femminista finisce per incontrare in quell’infinito tentativo di ridisegnare lo spartito con il quale si suona la musica del mondo.

ALEKSANDRA KOLLONTAI, protagonista della rivoluzione bolscevica, che scivola nella crisi di quel sogno che si faceva oppressivo e patriarcale davanti ai suoi occhi di donna di potere. Nadezda Krupskaja, moglie di Lenin, che «rifiutava» l’idea di una rivoluzione dall’alto, imposta per decreto amministrativo, specialmente quando questa comportava un attacco radicale, dogmatico e spietato alle comunità e alle sensibilità umana, ma che nella materialità delle sue condizioni si occupava di dare al marito lo spazio e il tempo di scrivere, mettendolo al riparo dai lavori di cura, e anteponendone le esigenze con quel passo naturale che molte di noi possiamo riconoscere nel modo «inconsciente» che abbiamo di procedere. Molto interessante la vicenda di Inessa Armand, mantenuta, assieme ai cinque figli, dal ricco marito imprenditore nonostante sapesse della sua infedeltà continua, consumata per lungo tempo con il fratello di lui, rivoluzionario attivo e compagno di avventure dell’Armand.

Una vita in cui le regole sacre della maternità venivano messe a soqquadro per dare priorità alle esigenze del capo dei bolscevichi, che la cercava ossessivamente e che ossessivamente ne rifiutava il dissenso. Si racconta del viaggio in America fatto dalla cecchina antinazista Ljudmila Pavlicenko, il suo disorientamento al sentire le domande dei giornalisti statunitensi sulla vestibilità della divisa, sul come essere militare e donna senza perderne in femminilità. Riflette, in quel viaggio, sulla inconsistenza di quelle interrogazioni, che sembrano assemblate senza tener conto di quello che davvero ha significato l’orrore nazista, di quello che davvero ha portato una donna ad uccidere più di trecento uomini per mestiere, schivando le richieste dei commilitoni di rassettare gli spazi comuni tra un agguato e un altro.

TRISTEZZE TRASVERSALI, si potrebbe dire anche così del femminismo. La più giovane dei cinque ritratti è quello della bulgara Elena Lagadinova, scienziata che si occupa di automazione in agricoltura per rendere concreto il principio socialista «più pane, di migliore qualità, per tutti».

Anche lei, come tutte, spese buona parte della propria militanza nel chiedere agli uomini del proprio partito di «dimostrarsi all’altezza della promessa di una vera emancipazione per le donne». Proposte concrete, relative ai calcoli pensionistici inerenti il lavoro di cura, pasti gratis per gli studenti, più asilo, un piano per i doposcuola. Venti anni di lotte per lasciare tracce materiali di un cambiamento, che seppero diventare anche motivi di affratellamento internazionale al di là degli stretti confini che la guerra fredda ridisegnava: potenza dell’intersezionalità senza tempo. Che deve muoverci ancora.