Come accorgersi – senza guardare fuori dalla finestra – che a Pechino è una bella giornata in cui splende il sole e il cielo è blu come potrebbe essere quello di Roma, in un’arieggiata mattina primaverile? Basta accendere il cellulare, collegarsi alla rete e aspettare: sarà un diluvio di messaggi di giubilo o di immagini rappresentanti spicchi di blu denso, come in un giorno speciale. Tutti i contatti di Weixin o Wechat, nuova applicazione per gli smartphone che rappresenterà ben presto il nuovo crack cinese in tema digitale (una specie di piattaforma di messaggistica, Twitter, Instagram, Facebook e messaggi audio e video tutto insieme) esultano perché dalla Capitale è fuggito il consueto alone grigio, un classico da queste parti.

E che la situazione sia peggiorata negli ultimi tempi lo ha dimostrato Wang, un amico non certo tra annoverare tra i “preoccupati”, anzi. Ha sempre minimizzato i rischi. Finché un giorno si è presentato con una mascherina per sé e una per me, che sono stato obbligato a indossare. Comprata ovviamente su Taobao (il più grande negozio on line al mondo). Costo 130 yuan, 15 euro. Considerando i filtri, che è necessario cambiare almeno una volta al mese, un giochino da oltre 20 euro. Non poco per un cinese.

Ed ecco quindi una buona rappresentazione: inquinamento, internet, preoccupazione e business. Si tratta di una catena inestricabile, capace di produrre un numero di proteste superiore, stando alle ultime ricerche, a quelle del mondo del lavoro. Ambiente, oggi, in Cina, significa una cartina di tornasole: del progresso del paese, del polso sociale e della consueta capacità cinese di modellare ogni preoccupazione in straordinaria potenzialità.

Perché Pechino è «grigia»

Prima di giungere alla causa principale è opportuna una premessa. L’inquinamento e tutto ciò che comporta oggi in Cina, rappresenta un prezzo che il paese paga per la sua straordinaria capacità di progressione economica. Il Dragone è oggi una potenza mondiale che ha elevato dalla soglia di povertà milioni di persone. È lecito dunque, in primo luogo, dotarsi di una fiducia, non senza critiche, nei confronti di una classe politica che deve di volta in volta confrontarsi con eventi epocali e numeri straordinari. La stessa fiducia che venne elargita alla vecchia Europa quando si trattò di tramutare la rivoluzione industriale in qualcosa che non fosse limitato all’immagine di Foggy London, non a caso associata in questi giorni alla Greyjing, ovvero la Grigia Pechino.

C’è un principale responsabile dell’inquinamento in Cina? C’è, si chiama carbone. La Cina ne è dipendente per il 70% del suo fabbisogno energetico e soprattutto ne consuma più di tutto il mondo messo insieme. Si tratta di un dato inequivocabile, contro il quale il Partito sembra intenzionato a correre ai ripari. La Cina ha fissato nel suo 12mo piano quinquennale la componente derivante da carburante non fossile del consumo di energia primaria all’11,4% entro il 2015. Poi ci sono le auto, uno status symbol che specie nelle grandi città sono ormai le protagoniste assolute, i nuovi padroni delle strade cittadine. Carbone e benzina, emissioni. Nelle grandi città. Nelle periferie scatta la scintilla che illumina, quella della rivolta.

Le proteste in tema ambientale di cui spesso si sente parlare, infatti, provengono dalla periferia dell’Impero cinese, da luoghi distanti dalle grandi città, dove il controllo è massimo, ma dove i cittadini, utilizzando internet e i cellulare organizzano straordinarie forme di resistenza. Nel 2007 fu la volta di Xiamen, poi arrivarono le proteste per l’estensione del treno ad alta velocità Maglev a Shanghai nel 2008, e quelle contro la costruzione di un inceneritore di rifiuti a Guangzhou nel 2009. Infine nel 2011, quando oltre 12mila persone protestarono contro una fabbrica inquinante a Dalian, le proteste divennero note a livello nazionale. La fabbrica venne chiusa. E altre proteste montarono: a Shifang, a Ningbo le ultime, clamorose, prima di Kunming, dove la scorsa settimana ci sono state manifestazioni contro una fabbrica inquinante.

Boom degli «incidenti di massa»

Ma Jun, un ambientalista di Pechino e fondatore dell’Istituto di affari pubblici e ambientali, ha specificato che «il governo non può continuare il suo vecchio modo di produrre Pil e poi decidere di conseguenza di quali progetti ha bisogno». La preoccupazione per l’ambiente ha portato infatti a una serie di scontri tra i governi locali e i residenti capaci di contestare contro veri e propri imperi economici, aziende di stato protagoniste della vita economica del paese.

Nel mese di ottobre dello scorso, la città di Ningbo ha fermato i piani per produrre la sostanza chimica paraxilene presso l’impianto della China Petroleum & Chemical Corp. dopo che centinaia di residenti si sono scontrati con la polizia. La scorsa estate, la città di Qidong ha demolito i piani per un progetto di un gasdotto di rifiuti di scarico dopo che migliaia di persone hanno protestato. L’influenza delle proteste è cresciuta vistosamente: tra il 2006 e il 2010, il numero di incidenti di massa sono raddoppiati fino a raggiungere almeno a 180mila l’anno, secondo Sun Liping, professore di sociologia all’Università Tsinghua. Nel 2011 le proteste ambientali sarebbero cresciute del 120%.

Perché questo tipo di proteste in Cina ha successo, arrivando a modificare i piani del governo? Secondo Liu Jianqiang, giornalista d’inchiesta ed sperto ambientale cinese, editor del sito Chinadialogue.net ci sarebbero tre motivazioni precise: in primo luogo, l’inquinamento avrebbe già raggiunto picchi intollerabili «ed è una minaccia per la vita e la salute». In secondo luogo, e questa ci sembra la giustificazione più importante, i diritti ambientali sono apolitici: chi protesta «non contesta l’autorità del sistema attuale. I manifestanti non devono temere di essere accusati di opporsi al governo». In terzo luogo, le questioni ambientali hanno un impatto più ampio rispetto a espropri illegali e controversie di lavoro. «Un grande impianto chimico potrebbe avere un impatto su milioni di persone».

Classe media, nuova anima

Si tratta dunque di un ambito quasi consentito: a non volere che il proprio figlio possa ammalarsi per le emissioni tossiche o per l’acqua inquinata è tanto il lavoratore rurale, quanto il più alto in grado tra i funzionari. In più le proteste hanno obiettivi specifici, chiusura o miglioramento di fabbriche in luoghi ben precisi, e non mirano a un più generale cambiamento politico. Per questo hanno successo e disegnano la nuova anima di una classe media che di queste proteste è la grande protagonista, soprattutto i figli, i nuovi figli, dell’emergente middle class cinese. Già media da un punto di vista economico e che prova a forgiare la propria capacità di impattare culturalmente sulla società cinese attraverso le contestazioni ambientali, con le quali di fatto chiede una migliore qualità della vita.
Keping Ma, dell’Istituto di Botanica presso l’Accademia delle scienze sociali di Pechino, ha detto alla stampa che il governo centrale starebbe sviluppando un «atteggiamento più positivo verso le tematiche ecologiche e ambientali» grazie alle azioni dei funzionari, ma soprattutto grazie alla pressione del pubblico: «Nel corso delle sue diverse dinastie, la Cina ha una storia fatta di villaggi e contee in grado di rovesciare i regimi che non potevano tollerare: spero che la storia non si ripeta, perché avrebbe un costo davvero elevato».