Sulla prima pagina di Libération di sabato 8 febbraio c’è un titolo a caratteri cubitali: «Siamo un giornale, non un ristorante, non una rete sociale, non uno spazio culturale, non una piattaforma televisiva, non un bar, non un’incubatrice di start up. I dipendenti di Libération rispondono al progetto degli azionisti». All’interno, cinque pagine dedicate all’ultimo capitolo della crisi del giornale.

Il quotidiano, che ha quarant’anni di vita più o meno come il manifesto, perde soldi. Nel 2013 ha perso 1,3 milioni di euro. Gli azionisti, nel novembre scorso, avevano proposto alla redazione un taglio degli stipendi intorno al 10% per evitare di finanziare un piano di dimissioni volontarie. Per risparmiare, anche nelle ultime settimane erano arrivate altre proposte, tra cui la chiusura obbligatoria in tipografia alle ore 20, senza possibilità di «ribattute» in caso di notizie straordinarie. A novembre, la redazione aveva risposto con un voto di sfida, bocciando con quasi il 90% dei voti la direzione di Nicolas Demorand, un giornalista radiofonico imposto dagli azionisti dopo la direzione di Laurent Joffrin, che già aveva segnato un grave periodo di crisi nel 2006, con molte dimissioni volontarie della «vecchia guardia» dei fondatori (Demorand, direttore effettivo dal marzo 2011 al giugno 2013, ha visto ridimensionato il suo potere ed è attualmente presidente del comitato di sorveglianza, un direttorio composto anche da Philippe Nicolas e François Moulias).

La tensione negli ultimi mesi è cresciuta al punto che giovedì scorso era stato deciso un giorno di sciopero immediato per venerdì. Anche il sito Internet è rimasto fermo fino alle ore 15. Poi la bomba: verso le ore 17, una mail del direttorio del giornale è arrivata ai redattori. «Una presa in giro», «un insulto», «un vaffa…», sono le prime reazioni dei lavoratori. La decisione è immediata: fare uscire il giornale sabato con la risposta al direttorio in prima pagina e poi un’assemblea per oggi, domenica, che molto probabilmente deciderà un altro sciopero per il giornale di lunedì.

I principali azionisti, Edmond de Rothschild (52% del capitale), l’uomo d’affari Bruno Ledoux e gli italiani di Ersel (eredi Caracciolo) vogliono usare Libération come un «marchio». E propongono di trasformare la sede storica, in rue Béranger a due passi da place de la République in un centro di conferenze e di incontri, con un bar, un ristorante, una piattaforma per registrazioni televisive e radiofoniche, etc. La testata deve diventare «una rete sociale, creatrice di contenuti monetizzabili su un’ampia gamma di supporti multimediali (print, video, Tv, digitale, forum, avvenimenti, radio ecc)», per accogliere come «luogo aperto e accessibile a tutti, giornalisti, artisti, scrittori, filosofi, politici, designer» il tutto, e sembra davvero una vera presa in giro, «interamente dedicato a Libération e al suo universo».

Foto Marc Chaumei
Foto Marc Chaumei

Peccato manchi la redazione del giornale, che sarebbe destinata a traslocare. Sembra addirittura che gli azionisti abbiano già preso contatto con il designer Philippe Stark per ristrutturare in centro multifunzionale di 4500 mq la splendida redazione di rue Béranger.
Con un editoriale firmato da tutti i dipendenti, i giornalisti denunciano «il progetto degli azionisti che ha provocato stupefazione e poi rabbia del gruppo redazionale, tanto è lontano dal nostro mestiere e dai nostri valori». Per la redazione «non offre nessuna prospettiva seria» e «se venisse applicato Libération sarebbe ridotta a un semplice marchio». Per i giornalisti «le prossime settimane saranno difficili, ma restiamo uniti e determinati».

[do action=”quote” autore=”I giornalisti di Libération”]«Non esiste che il giornale fondato da Sartre diventi un marchio»[/do]

«Da quando discutiamo con François Moulias (nuovo membro del direttorio), che ha il ruolo di negoziatore, non è mai stato evocato un piano del genere – denuncia Tonino Serafini, giornalista rappresentante del sindacato Sud – ci siamo fatti imbrogliare», afferma. E aggiunge: «Non esiste che il giornale fondato da Jean-Paul Sartre diventi un marchio». Per la redazione non è più nemmeno questione di riduzione dei salari o di anticipo dell’orario di chiusura ma di trasformare il giornale nato sull’onda del ’68 in un «Libéland, Libémarket, Libéworld», cioè «una losanga rossa con niente dietro, dieci lettere che non significano quasi più nulla, a parte il prezzo a cui vogliono monetizzarle». In altri termini, è «un vero e proprio putsch degli azionisti, contro Libération, la sua storia, la sua redazione, i suoi valori», «buttare fuori i giornalisti per tenersi il bel logo e monetizzare la testata», commenta un redattore.

L’idea degli azionisti è difatti di conservare il logo della testata nell’edificio molto particolare di rue Béranger, un garage dove ha sede la redazione in cui si passa da un piano all’altro attraverso una rampa, dotato di un magnifico terrazzo da cui si vede tutta Parigi. Per gli azionisti il trasloco della redazione è «ineluttabile». Forse si sposterà ai bordi di Parigi, vicino al raccordo périphérique. Difatti uno degli azionisti, Bruno Ledoux, che non è altro che il proprietario della sede di rue Béranger, possiede immobili per ufficio a Bagnolet.

Come il manifesto, Libération aveva già vissuto una crisi difficile nel 2006, un anno dopo l’arrivo di Eduard de Rothschild, chiamato dall’allora direttore Serge July per salvare le finanze del giornale. Nel 2011-2012 i conti erano tornati all’equilibrio. Ma il 2013 si è chiuso in rosso. La diffusione del quotidiano è calata del 15% ed è ora sotto le 100mila copie, vendita troppo bassa per giustificare i 290 assunti.

[do action=”quote” autore=”Gli azionisti di Libération”]«Libération, come il resto della stampa in generale, deve la sua salvezza ai contributi pubblici»[/do]

Con grande disprezzo, gli azionisti nella loro lettera hanno fatto notare ai giornalisti che vivono solo «grazie agli aiuti pubblici», che in Francia sono consistenti, in nome della garanzia del pluralismo (a Libération arrivano circa 8 milioni l’anno di finanziamenti statali). In Francia – a differenza dell’Italiail contributo pubblico all’editoria è generosissimo. E anche qui da qualche anno è messo in discussione, dagli «stati generali della stampa» dell’era Sarkozy fino a un rapporto parlamentare, che ha sottolineato l’inefficienza di aiuti a pioggia (500 milioni di euro l’anno di aiuti diretti, 1,2 miliardi con quelli indiretti), che non vanno a chi ne ha più bisogno per garantire il pluralismo ma finiscono in buona percentuale nelle tasche di imprenditori che pubblicano testate di svago.

Foto Jean-Michel Sicot
Foto Jean-Michel Sicot