Toyo Tsuchiya (Gotemba City, prefettura di Shizuoka 1948) abita al sesto piano di un edificio che un tempo è stato occupato (anche lui era uno squatter), nella zona di Alphabet City, appena superato il confine con l’East Village. Dal 1980, anno in cui è arrivato a New York, il fotografo giapponese ha sempre gravitato nell’area di Downtown Manhattan, tra East Village e Lower East Side, dove ha documentato il fermento artistico degli anni ’80 e ’90. Locali underground come The Mudd Club, Danceteria, Club 57, Limbo Loung, e anche il porno shop abbandonato che è stato la location di un evento speciale come il Times Square Show, non esistono più da tempo, sostituiti da bar esclusivi, ristoranti alla moda e gallerie super cool, soprattutto a Lower East Side che è uno dei nuovi luoghi newyorkesi per le gallerie di arte contemporanea. Il Pyramid Club, dove Nan Goldin ha realizzato il suo primo slide-show, è diventato un hip-hop club.
A quel periodo appartiene anche il movimento spontaneo detto Rivington School il cui ricordo sopravvive nelle centinaia e centinaia di foto (soprattutto in bianco e nero) che Tsuchiya ha continuato a scattare per circa trent’anni. Il suo archivio è sorprendente, considerando anche che solo la metà dei negativi è stato stampato.
Nel suo appartamento, la vecchia camera oscura ormai è diventata un magazzino e il nuovo hobby è il golf. «Ora fotografo solo i miei gatti», afferma Toyo Tsuchiya indicando la sequenza a colori che ritrae Sochiyu, il gatto che ha condiviso i suoi spazi fino a qualche mese fa. Recentemente ha adottato Po Po, il tigrato che ama giocare mordicchiando le caviglie degli ospiti. «L’ho chiamato come un eccellente danzatore butoh che ho conosciuto anni fa».
Le pareti sono tappezzate di fotografie, ritagli di giornale, inviti. Un poster raffigura Orimoto Tatsumi in versione Bread Man,poi c’è una pagina di giornale con un autoritratto di Shirin Neshat, l’invito dell’amico Kwok Mang-ho (detto anche Frog King) per la 54/ma Biennale di Venezia, mentre in cucina, sul muro dipinto di verde, è riconoscibile la silhouette di un «Icaro» di Paolo Buggiani che si riflette sulle scatole di tè decaffeinato e, di fronte, la collezione di cappelli da baseball. Ma la maggior parte del materiale riguarda No Se No («non so nulla» in spagnolo), il «Social Club» al 42 di Rivington Street che, insieme ai drink, offriva arte sperimentale, musica, danza, video. Un luogo in cui «si saldava, forgiava, si facevano performance e pittura di strada». Tsuchiya ne è stato direttore dal 1985 al 1987, parallelamente ha diretto altri due spazi espositivi d’avanguardia: Mars Bar gallery al 25 di East First Street (1986-90) e Tobe Art International Gallery al 116 di West Houston Street (1987-90).
Nato nella zona del Monte Fuji, ma cresciuto tra Kyushu e Yokohama, l’artista si è diplomato nel 1967 alla Kanagawa Ken Technical High School for Industrial Design di Yokohama, proseguendo gli studi pittorici presso il Kawamura Painting Institute di Yorkohama e l’Osaka City Art Institute, spostandosi successivamente a Tokyo, dove alla fine degli anni ’70 si è avvicinato alla fotografia da autodidatta. «Avevo 19 anni quando ho deciso di smettere di dipingere, ero alla ricerca di nuovi strumenti per fare arte. Per due anni, a Tokyo, non ho fatto altro che fotografare. Ho sempre sviluppato e stampato in bianco e nero. Qualche volta usavo il colore, ma in questo caso ricorrevo ai laboratori. All’epoca conoscevo il lavoro di Araki, Eikoh Hosoe e Daido Moriyama, ma ero alle prese con la mia situazione personale. Per comprare l’attrezzatura avevo bisogno di soldi, lavoravo fuori Tokyo, in altre città, ma tornavo lì per fotografare. Non ho frequentato nessuna scuola. Ho imparato facendo pratica. In Giappone fotografavo qualsiasi cosa, persone, paesaggi. Ho fatto così anche quando sono arrivato a New York. Qui, però, c’erano molte più cose interessanti da fotografare. La gente era aperta. L’ambiente era diverso. Ero entusiasta!»
«Con un caro amico decidemmo di partire per New York – continua Tsuchiya – nessuno di noi aveva mai visitato altri paesi. Conoscevamo l’arte americana attraverso le riviste d’arte, soprattutto la Pop, Jasper Johns, Rauschenberg, Andy Warhol… Quanto bastava per avere la convinzione che questo fosse il posto giusto dove andare. Diversamente dal Giappone che era più tranquillo e ’segreto’, anche conservatore, qui ho percepito un clima accogliente che era l’ideale, soprattutto per un artista curioso di entrare in contatto con altre realtà. Per due settimane rimasi in albergo, poi i soldi stavano finendo e decisi di rivolgermi alla comunità giapponese per cercare un lavoro. Così ho conosciuto Kazuko (Miyamoto) e i suoi amici mi offrirono un lavoro. Inoltre un amico che si stava recando in Germania aveva bisogno di qualcuno che rimanesse nel suo appartamento, così abitai da lui per sei mesi. Incontrai artisti internazionali, vicini di casa con cui nacquero amicizie profonde. È qui che ho cominciato a fotografare edifici, persone, conoscenti. Quando decisi di rimanere a New York non mi posi il problema della legalità. Scaduto il visto turistico, ero nella clandestinità. Non potevo più tornare in Giappone, dovevo dimenticarlo. Solo dopo otto anni e mezzo sono potuto tornare per la prima volta nel mio paese, in occasione del progetto espositivo Five NY Art Now – Street Collaborations 88. La green card l’ho avuta solo grazie all’amnistia, essendo residente negli Stati Uniti da prima del 1° gennaio 1982».
Prima ancora di diventare il direttore di No Se No, Toyo è stato un assiduo frequentatore del club. Di giorno lavorava come carpentiere o imbianchino, ma ogni sera era nel locale con la sua macchina fotografica per documentare azioni e performance. Stampava da sé le sue foto che, giorno dopo giorno, venivano appese alle pareti del locale creando un collage in progress. La «maratona non-stop» di performance di cui, tra il 1983 e l’85, sono stati protagonisti una serie di artisti come Sandra Binion, Dragon Ilic, Bruna Esposito, Kazuko Miyamoto, lo scrittore, attore e performer Taylor Mead (che compare anche in diversi film di Andy Warhol), è stata successivamente oggetto della mostra No Se No 99 Nights (1985) che ha riproposto sulle pareti del «social club», una serie di scatti di Toyo Tsuchiya.
«Mi piaceva osservare e documentare il lavoro degli artisti. Ero molto vicino a loro. Non solo perché lo spazio era limitato, soprattutto per via del fatto che ero uno di loro. Non c’erano confini tra noi. Erano gli artisti a comprare le mie foto per quattro o cinque dollari».
Della Rivington School hanno scritto anche il critico Amr G. Shaker, Nancy Grimes in New Art Examiner (novembre 1989) e Enrico Baj che in Ecologia dell’Arte (1990) descrisse il radicale cambiamento avvenuto nell’East Village verso la metà degli anni ’80, «da zona di alto degrado urbano a favoloso centro di artisti, di gallerie e di creatività. Spazi espositivi effimeri si aprivano ovunque, in negozi abbandonati, in seminterranei degradati, in piccoli o grandi locali affittati per l’occasione, oppure semplicemente occupati. Il quartiere divenne in breve tempo un luogo pittoresco, pieno di cose da vedere e di artisti da scoprire, rimpiazzando la funzione che verso la fine degli anni Sessanta aveva assunto SoHo».
Baj aveva conosciuto la realtà della Rinvington School insieme a Christine Louisy-Daniel che, nel 1985, aveva aperto la galleria Emerging Collector. Rimase affascinato dalle dinamiche interne di questa «aggregazione artistica» che si muoveva all’insegna della libertà creativa e divenne, in particolare, molto amico del pittore Kevin Wendall (FA-Q) che ne era l’anima insieme a Ray Kelly, Robert Parker, Linus Coraggio, Paolo Buggiani, Ken Hiratsuka, Luca Pizzorno, Arlene Schloss, Jan Vangrow, Ed Herman e, naturalmente, Toyo Tsuchiya. «Su un’area abbandonata, all’angolo delle due strade (Rivington Street e Forsyth Street), questi artisti realizzarono ‘un giardino di sculture’, tutte fatte di materiali casuali e ferraglie, che venivano costruite e saldate in elevazione, come tante guglie – scrisse Baj – Su una cima più alta svettava una lettera ‘A’. Alla fine del 1987 intervennero le ruspe e spianarono il terreno. Un secondo ‘giardino di sculture’ è stato ricostruito lì accanto agli inizi del 1989. Rivington è l’anti-minimal per eccellenza. Per molti aspetti è la continuazione di quel movimento per un Bauhaus immaginista, fondato da Jorn e altri nel 1953, e che sosteneva i valori dell’irrazionale contro la geometrizzazione forzata dell’arte, contro la linea e l’angolo retto».
Anche quel secondo Sculpture Garden fu demolito forzatamente, ma la storia di entrambi – costruzione e distruzione – è documentata in Anti-Credo (1988), il film in Super8 di Monty Cantsin (aka Istvan Kantor oppure Amen!) e nelle fotografie di Winnie Berrios e, naturalmente, di Toyo Tsuchiya.