«Essere onesti è non avere che pensieri confessabili ma essere sinceri è avere tutti i pensieri». Così scriveva Jacques Rivière (1886-1925) in De la sincérité envers soi-même, uscito nello stesso anno della sua scomparsa. Di inquieta ascendenza cattolica, segretario e poi direttore della mitica «Nouvelle Revue Française», Rivière fu critico, saggista e romanziere che ebbe un’influenza e un’autorità rilevanti a cavallo tra gli anni dieci e venti del Novecento. Amico di Alain-Fournier, l’autore dell’indimenticabile Le grand Meaulnes, di cui sposò la sorella Isabelle, Rivière pubblicò titoli importanti che meriterebbero, anche nel nostro paese, un’opportuna riscoperta editoriale. A cominciare da quel gioiellino che è il romanzo Aimée (1922), pubblicato da Feltrinelli nel 1959 a cura di Niccolò Gallo ed emblematicamente dedicato a Proust, per passare ad altri volumi come il fondamentale Études (1911), L’Allemand (1918), À la trace de Dieu (1925), il postumo Carnet de guerre (1929). A lui si deve, tra l’altro, la rivelazione di Antonin Artaud, basata su quell’incandescente carteggio che uscì dapprima nel 1924 sulle pagine della «NRF» e che venne in seguito raccolto in volume con il titolo Correspondance avec Jacques Rivière nel 1927. Ma altre importanti raccolte epistolari sono quelle con Alain-Fournier, Claudel, lo stesso Proust.
Una monografia di Carlo Bo, 1935
D’altro canto è avvilente pensare che uno scrittore così dimenticato, così «rimosso» dalla cultura ufficiale abbia conosciuto in passato un notevole interesse, sia esegetico (vedi la monografia dedicatagli da Carlo Bo per Morcelliana nel 1935) sia sul versante delle traduzioni: gli Studi uscirono nel ’45 per Bompiani, altri titoli vennero stampati da Morcelliana, Borla, Pratiche editrice. E, appunto, quest’ultima casa editrice pubblicò nel 1985 la versione italiana di un libro apparso originariamente postumo per la Librairie de France nel 1927, ora meritoriamente riproposta dalle Edizioni Medusa: Alcuni aspetti nello studio del cuore umano Proust e Freud («Le porpore», pp. 168, € 18,00), con scorrevole traduzione di Antonio Martinelli rivista da Alfredo Rovatti (ma perché si ha la cattiva abitudine di non dichiarare in apposita nota questi recuperi editoriali?). Si tratta di una serie di conferenze, tenute nel gennaio 1924 al Théâtre du Vieux-Colombier, dedicate alle figure di Proust e Freud e alle analogie che intercorrono nelle opere di questi due capisaldi, soprattutto sul piano dell’inconscio. «Avviarsi allo studio del cuore umano senza essere informati della sua esistenza e della sua attività, e senza premunirsi contro i suoi sotterfugi, equivale a voler stabilire la natura dei fondi marini sprovvisti di sonda e lasciandosi guidare dal solo aspetto delle acque» avverte Rivière.
Nella sua accurata introduzione, Mario Lavagetto definisce Rivière «un meraviglioso e rabdomantico inventore di parabole». Osserva inoltre: «Partito da Descartes, Rivière finisce ben presto per smarrirlo o per coniugarlo audacemente con Dostoevskij». Rivière fu tra i primi estimatori di Proust, suo amico e confidente: «Amavo teneramente Proust; credo che nutrisse un po’ di affetto per me, ma né in lui né in me l’amicizia fu mai veicolo d’illusione, né fece mai sì che ci sentissimo in dovere di immaginarci l’un l’altro diversi da quelli che eravamo». Rivière, proprio in virtù di questa sua frequentazione, era perfettamente al corrente che l’autore della Recherche non conoscesse di prima mano l’opera di Freud. Eppure rileva straordinarie analogie fra alcuni topoi proustiani, poi divenuti celebri (gli episodi delle madeleines, delle «intermittenze del cuore», della «piccola frase» che cadenza la sonata di Vinteuil) e i precetti freudiani: «Il problema letterario diventa così per Proust sorprendentemente affine a quello che è il problema psicologico per Freud: ricostituire l’integrità di una vita psichica, colmare le lacune della memoria, ridare vita alle piccole percezioni colpite da dimenticanza». L’intento di Rivière è quello di dare impulso a quella «revolution en arrière», costituita dall’opera del «reazionario» Proust in contrapposizione alle intemperanze delle avanguardie storiche, in primis quelle del dadaismo (non a caso scriverà una rutilante Reconaissance à Dada).
Gli scritti dedicati a Proust sono «tardivi» rispetto all’apparizione dei primi tomi della Recherche: il libro inaugurale Du côté de chez Swann era uscito nel 1913, seguito nel ’19 da À l’ombre des jeunes filles en fleur, con il quale l’autore vinse il Premio Goncourt. Proust stesso scomparve nel novembre ’22 senza riuscire a vedere le ultime tre parti di un’opera monumentale composta in sette «movimenti». Quando tenne queste conferenze, Rivière non poteva conoscere né La FugitiveLe Temps retrouvé, comparsi rispettivamente nel ’25 e nel ’27. Lavagetto si interroga sul perché, a differenza del Sacre du printemps di Stravinskij, di cui Rivière percepisce fin da subito la reale portata innovativa, lo stesso non sia avvenuto con le coeve sottigliezze introspettive di Swann: «Era più facile, insomma, cogliere i segnali che venivano dalle fragorose e spettacolari percussioni del Sacre du printemps (…) piuttosto che adeguarsi alle misure e ai moduli introdotti nella Recherche, da un’opera che Rivière incontrava sul proprio terreno di lavoro e che con il passato intratteneva un rapporto ambiguo, coniugando il nuovo e il vecchio». Oltretutto gli stilemi della Recherche, pur affrontata nella sua primigenia frammentarietà, non potevano che depauperare lo stesso specimen narrativo di Aimée, ancorato a istanze gidiane, tanto che Niccolò Gallo rileverà come rappresentasse «il grande libro che nel saggio sul romanzo d’avventure egli aveva invocato e presagito» (il riferimento è al Roman d’aventure, del 1913).
Affinità sul tema dell’inconscio
Il tema dell’inconscio, seppur affrontato in ambiti diversi (si consideri che le prime traduzioni francesi di Freud sono posteriori al ’20), rivela una straordinaria affinità di intenti, in quanto, come dichiara Rivière, «l’inconscio non è per Proust una comoda supposizione, un’ipotesi pigra, ma piuttosto un fatto che il suo spirito enuclea in un moto verso il reale, e il prodotto immediato di quel dubbio che solleva sugli aspetti spontanei della coscienza». E ancora: «Un altro punto (…) nel quale i nostri due autori si trovano in segreto accordo è quello dei rapporti fra amore e dolore, fra desiderio e angoscia». Rivière disquisisce intorno alla «concezione soggettivistica dell’amore» in Proust, notando che sussiste «un’analoga insistenza sugli accidenti che possono determinare la fissazione del desiderio». In tal senso la descrizione dei numerosi lapsus di cui è costellata la Recherche si inseriscono in quella dinamica che vede Proust soccombere a causa «di quella stessa imperizia che gli ha permesso di scrivere la sua opera».
Pur tenendo conto dell’aspetto pionieristico delle sue elucubrazioni, non si può non notare che quando Rivière si occupa solo di Freud, come nella conferenza iniziale consacrata alla psicoanalisi, lo fa in maniera un po’ velleitaria mentre i testi esegetici proustiani sono da considerarsi vere e proprie pietre miliari; risultano quanto mai pertinenti anche gli intrecci con l’opera freudiana e la libido. Rivière ci regala a tratti passaggi sorprendenti: «Proust è totalmente, profondamente immerso nella sensazione, nel sentimento. Sin dall’infanzia sentire assorbe tutte le sue forze, tranne una: l’intelligenza. Lo si vede prigioniero delle proprie emozioni, sepolto sotto la loro moltitudine, già prostrato, oppresso; è solo il suo spirito a volare e trascenderlo, pur non proponendosi altro compito che quello di scandagliare». Anno di pubblicazione? Il 1923, in occasione di un numero monografico della «NRF» sull’autore della Recherche, come a dire agli albori dell’ermeneutica proustiana.