La poesia comica o satirica è stata nel nostro Novecento una rarità, quasi un oggetto estraneo tra lirismi e sperimentalismi, tradizioni sublimi o raccattate. Una voce extravagante, anche quando comico o satirico era solo il tono o l’impostazione. Prima di ogni altra cosa, almeno da Orazio in poi, il comico e il satirico sono, come poi conferma una intera ridda di interpretazioni, piuttosto un registro che un oggetto. Come la realtà, in letteratura, è soprattutto un effetto (stilistico) di realtà, così il comico è un vocabolario e soprattutto un punto di vista sulle cose: una gaia scienza che non è detto non conosca la tragedia, ma semplicemente la racconta in altre forme, fino a nasconderla e fino, anche, a farla diventare più tragica.
Non che Vito Riviello abbia praticato solo questo tono o registro, ma quando lo ha praticato gli è stato congeniale come a pochi altri. Lo si vede ora ripercorrendo il suo intero panorama poetico grazie a Tutte le poesie curate e introdotte da Cecilia Bello Minciacchi (due volumi pubblicati da Sapienza Università Editrice, pp. XXXIV-1182, fuori commercio ma in open access sul sito dell’editore). Lo sguardo sull’insieme della sua opera è stato poco agevole: di ridotta circolazione le raccolte in versi, di ancor più rara vista le cartelle per gli artisti, quasi invisibili i versi affidati alle tirature limitatissime delle edizioni Pulcinoelefante di Osnago. La presente impresa è dunque variamente meritevole; in più è conclusa da un’ampia antologia della critica che mostra come, nella sua invisibilità, la poesia di Riviello sia stata molto ben frequentata e seguita.

Cultura meridionalista
Lucano, Riviello scopre presto la vocazione poetica, accompagnata da un vivace interesse per la cultura meridionalista. «Vengo da una regione – ha detto in un’intervista del 1985 qui raccolta – che ha dato un’ottima poesia nel dopoguerra: Rocco Scotellaro, Leonardo Sinisgalli, Albino Pierro; questi poeti, nati tutti in paesi, hanno cantato un po’ l’aspetto malinconico della civiltà mediterranea, l’espressività greca classica, tragica. Io sono nato in una città chiusa e precaria come Potenza, invasa e distrutta da eserciti e terremoti. Murat ne fece una piccola capitale, una vice-Napoli. Mentre nei paesi fioriva soprattutto, nella solitudine, nella miseria, una poesia d’amore (…), nella «capitale» invece una poesia «a dispetto», ironica e cattiva, forse dovuta alla repressione molto più forte e alla possibilità di un minimo di polemica – è la cattiveria oggettiva della città. Nato e sviluppato in questo contesto-estensione della voce satirica, estensione del grottesco, del buffo, tendenza anche a individuare la differenza di classe (…), nel clima della battuta ironica, che si passa di bocca in bocca fra gli artigiani, falegnami, barbieri, autori di scherzi, ironie, implacabili soprannomi… ecco, la mia matrice, la mia “scatola nera” è questa».
A Potenza (dove era nato nel 1933), fu sollecitatore di iniziative tra politica e poetica fino al trasferimento a Roma (dove si spegnerà nel 2009). Di questa sua origine si farà forte: avrebbe potuto far sua la risposta di Giovanni Russo a Luigi Barzini, che diceva di esser vissuto a lungo a Londra: «Io invece a lungo a Potenza»: e infatti, per interposte persona e città, in 1943 si legge: «Chi siamo sgolava il filosofo. / Dove andiamo? Si batteva la testa / nella villa mesta. Da dove veniamo? / “Da Foggia, signor tenente!”». Tra Roma e Frascati, dove si stabilisce per circa un quindicennio, matura rapporti con artisti, accompagnando spesso con versi o prose cartelle d’arte. Nato nella terra di Orazio, non solo ne percorre i luoghi, ma si appropria di quello spirito dal tono medio capace di accensioni e di passioni guidate tuttavia dall’ironia e da una saggezza che sembra acquisita da sempre, o innata. Di Orazio traduce la quinta satira a modo suo: «Uscendo dalla Roma grande, in compagnia del retore Eliodoro, / il più colto dei greci, / mi accolse ad Ariccia un albergaccio con ricotta e salsiccia» (che scioglie in concreto «hospitio modico»).
Tanto cibo – come nei film di Totò – e tanto sport nei versi di Riviello: il titolo di una sua poesia, Il giardino dei supplì, ribalta una intera tradizione, all’insegna – sia consentito il doppio senso – del riso (che si scatena linguisticamente anche con una battuta tragica: «I vecchietti che devono finire / cominciano a mancare»). E c’è un suo libretto dedicato al gioco del calcio (che il lettore non troverà schedato nella bibliografia, dedicata esclusivamente alla poesia), Manualetto del calcio sognato (uscito da Tracce nel 1992 con un lungo saggio introduttivo di Plinio Perilli, Patafisica della sfera) che, se ben letto, diventa una vera e propria guida alla poesia di Riviello: il calcio appare come una retorica e una danza, come «una scienza da amare», secondo una formula di incerta paternità (forse di Nils Liedholm). Da ragazzo Riviello ebbe il mito di una squadra locale, poi tenne per quella squadra di Torino che non porta il nome della città, ma ciò che qui interessa può essere invece un passaggio come: «Il dribblatore in fuga sfiora piedi, fianchi, maglie, va per istinto naturale, è il vento, l’astuzia del vento». Come la poesia, si direbbe, che sfiora le cose e va al suo bersaglio: nel caso di Riviello, con una danza allegra e astuta. E siccome Tabarin (1985) ha una poesia per Pelé, il calcio diventa anche avanspettacolo e memoria del cinema delle dive: «Quando Jairzinho passò palla a Pelé / vi fu un dribbling aereo / da celeste impero. / La difesa intera fu tagliata, / pezzi rari si trovorno a Bari (…) Stoppatala col petto, osceno, ludico / su tutta la gamba se la passò / come la calza di grande star…».

Una nota di Volponi
L’astuzia della realtà è il titolo del secondo (e tardo: 1975) esordio di Riviello, accompagnato da una nota di Paolo Volponi. Il primo (1955) era stato Città fra paesi (la dinamica descritta nello stralcio di intervista sopra riportato): venti anni per maturare lo stile suo proprio, pur non assente fin dall’inizio, almeno nella scelta del registro lessicale. Il titolo che lo identifica è il beckettiano Assurdo e familiare (1986, nota di Giovanni Raboni) che infatti passerà al volume che raccoglierà i versi scritti fino al ’97 (introdotto da Giulio Ferroni). Si può dire che, come gli studiosi del mondo antico parlano di «astuzia dell’intelligenza», accostando due termini che il senso corrente vorrebbe non solo lontani ma inconciliabili, per Riviello si potrebbe parlare di «astuzia della poesia» (col corollario che ogni astuzia prevede un’innocenza). Non una poesia furba, tutt’altro: una poesia agile e volpina, dallo sguardo rapido e franco, che ha chiaro il suo scopo: andare al cuore della realtà per metterne in evidenza gli aspetti paradossali con un’aria che dà a vedere di non essere giudicante, ma che reca sempre più o meno implicito un risvolto caustico, risolutamente critico. Kukulatrìa (1991, nota di Paolo Mauri) raccoglie dei «“Kùkù” di scuola campagnola e mediterranea», secondo avvertenza dell’autore. Per esempio «Non c’è rosa senza Spinoza» o «Nascono nel qui pro quo / le ragioni di Totò». E siamo ancora all’amato avanspettacolo, come ancora nella poesia che apre Fotofinish del millennio (1996), con tronche oltremisura, all’ispanica: «e no se puede giocar / porqué no se puede puntar / né sul nigro né sul roscio / ambedue fallimentar…». Qui la realtà è vista come storia, o viceversa. E se è vero che si tratta delle astuzie della poesia, vale come sigla un altro kùkù; soprattutto vale come firma il terzo e ultimo verso: «Fino all’ultimo Ulisse / si nascose ai Proci, / vulpis in fundo».