Nella storia radical d’America, quella del Black Panther Party for Self-Defense rimane un capitolo a sé per suggestione e prorompente forza iconografica. Il partito armato di autodifesa afroamericana continua ad esercitare un fascino particolare sull’immaginario militante come atto di suprema legittima sfida all’ingiustizia razziale e di classe. Ed è singolare che le Pantere non siano rappresentate in una filmografia più consistente. In realtà, al di là di Panther, l’agiografia piuttosto modesta diretta da Mario Van Peebles su sceneggiatura del padre Melvin nel 1995, le Pantere latitano singolarmente dal cinema americano, confinate a cinegiornali e doc (Black Power Mixtape, ad esempio, dello svedese Göran Hugo Olsson) o come ispirazione per oggetti come lo spettacolo teatrale di Roger Guenveur Smith, A Huey P Newton Story (poi filmato da Spike Lee).
La rappresentazione non è commensurata al fascino che il BPP esercita ancora sull’immaginario rivoluzionario, a partire dagli inconfondibili berretti e le giacche di pelle nera con cui affrontavano gli sbirri o esibivano apertamente le armi (come quella volta al parlamento della California di Ronald Reagan nel 1967), scardinando ipocrisie e seminando il panico nel subconscio razzista della nazione. L’efficacia valse alle Panthers il primo posto sulla lista dei nemici dell’Fbi di J Edgar Hoover che mosse contro di loro una sistematica ed efficace guerra di annientamento destinata ad essere tragico epilogo del movimento ed esplicitazione della corrente suprematista che sottende la parabola americana.
Quella delle Pantere Nere rimane tuttavia la stagione rivoluzionaria che, dopo Malcolm, ha prodotto Angela Davis, Stokely Carmichael (Kwame Ture), Huey Newton, Eldridge Cleaver, Barbara Easley Cox, Bobby Seale, Elaine Brown e una intera generazione di intellettuali, attivisti, autori ed autrici, molti dei quali hanno fatto seguito alla militanza giovanile con vite e carriere accademiche o nell’amministrazione pubblica, traducendo l’esperienza di quel movimento in contributi alla lotta progressista cui attinge oggi parte consistente della sinistra americana, compresa Black Lives Matter che oggi ha ricoperto il loro retaggio di resistenza politica e attivismo militante.
Fra le figure più carismatiche di quella stagione, anche se forse meno conosciuta dei leader della sede centrale di Oakland, c’era Fred Hampton, assurto poco più che teenager a segretario della sezione di Chicago. Se Huey, seduto sul suo trono africano di vimini, era il Che Guevara delle Pantere, Hampton autodidatta studente di Mao e Ho Chi Minh, era convinto internazionalista e fautore di una prassi gramsciana che collegava la resistenza armata e il «community service», la distribuzione dei pasti autogestiti per bambini delle scuole all’autodifesa di classe. Soprattutto fu promotore di una nascente coalizione di proletariato emarginato urbano, nero, ispanico e bianco, non vista dai tempi dei sindacati internazionalisti e anarchici degli anni Venti e Trenta. Il successo lo elevò immediatamente nel mirino del progetto Cointelpro di J Edgar Hoover, in quanto temuto «Black Messiah» in grado di costruire un movimento unitario e intersezionale. Hampton, drogato da un infiltrato, verrà crivellato di proiettili, ancora diciannovenne, mentre dorme con la compagna incinta in un raid omicida degli agenti federali nel 1969.
La sua storia (e quella del suo tradimento), viene ora recuperata da Judas and the Black Messiah – candidato all’Oscar al miglior film, oltre che sceneggiatura originale e fotografia – ultimo esempio della massima vitalità che attraversano attualmente il cinema e la fiction afroamericane. Judas è sceneggiato e prodotto (con un assist di Ryan Coogler) dai fratelli Kenny e Keith Lucas – gemelli afroamericani di Newark, autoproclamati «nerd» provenienti dall’area della standup comedy (ma anche entrambi laureati in legge). Nati 25 anni dopo la morte del leader noto come «Chairman Fred», i Lucas dichiarano di aver appreso la storia delle Pantere di Chicago in un corso universitario e di aver capito allora che la sua storia «chiedeva giustizia». Contemporaneamente la visione de Il Conformista ha dato loro l’idea di affrontare la storia attraverso l’esperienza del traditore, Bill O’ Neal (Lakeith Stanfield) – uno dei tanti infiltrati usati dall’Fbi per sabotare il movimento.

Per la regia i Lucas hanno contattato Shaka King, figlio di immigrati (Panama e Barbados) cresciuto a Bedford-Stuyvesant, nel cuore della Brooklyn afroamericana, con esperienza in una manciata di prodotti televisivi. Il suo film evita il luoghi comuni del biopic e restituisce una storia di grande forza narrativa e che per rendere il periodo fa tesoro anche di una coeva estetica blaxploitation e materiali documentari (non a caso King è dichiarato ammiratore di Spike Lee).
Nei panni di Hampton, Daniel Kaluuya dà una prova elettrizzante che gli è valsa il Golden Globe e la nomination all’Oscar (insieme a Stanfield) come miglior attore non protagonista. In quelli di Deborah Johnson, la compagna di Hampton e oggi madre di suo figlio, c’è l’attrice e autrice teatrale Dominique Fishback, un personaggio chiave e rappresentante della poco conosciuta – ma maggioritaria – componente femminile e femminista delle Pantere Nere. Abbiamo incontrato Dominique Fishback ed il regista via Zoom, da Los Angeles.

Come vi siete avvicinati a questa storia?

Dominique Fishback: personalmente crescendo a East Brooklyn, frequentando le scuole pubbliche non avevo veramente un senso dei nostri eroi. Ci insegnano di Martin Luther King, eventualmente qualcosa di Malcolm X ma certo niente su come Chairman Fred Hampton è riuscito all’età di 21 anni a creare una coalizione arcobaleno di tutte le razze.
Shaka King: Sono cresciuto conoscendo vagamente il suo nome, imparato forse al liceo e poi all’università la storia di come è stato falciato da 100 proiettili. Quando i fratelli Lucas mi hanno portato il copione ho cominciato a fare ricerche più approfondite. Ho sempre saputo come è morto ma solo a quel punto ho imparato come ha vissuto. E soprattutto quanto giovane era. Si potrebbe pensare che tutti ne fossimo al corrente, invece la storia e il retaggio delle Pantere ci sono stati intenzionalmente sottratti.

La storia di Hampton ha un’attinenza al presente ?

DF: Lui, Chairman Fred, sapeva trasmettere alla gente il senso del proprio potere e aveva creato la sua coalizione con l’idea che tutti gli oppressi dovessero unirsi nella lotta agli oppressori. E quando ci penso mi rendo conto di quanto sia attuale ancora oggi questa idea di una forza prodotta dall’unione, per farci sentire dai politici e dal governo, anche se proveniamo da diverse estrazioni. Una produzione afroamericana per una storia afroamericana…
SK: Ricordo qualche anno fa la sensazione di frustrazione quando uscì The Help, un film che raccontava la resistenza alla discriminazione da parte di domestiche afroamericane utilizzando però il punto di vista di una donna bianca. Non dico che ogni mio lavoro debba avere un riferimento biografico, ma mi sembra tuttavia importante che vengano prodotti e che io possa girare film che mostrino sia il potere che abbiamo come gente che le nostre vulnerabilità e umanità.

Dominique Fishback, lei interpreta la compagna di Hampton, Deborah Johnson, che è ancora viva.

DF: Ho sentito un’ enorme responsabilità in questo senso. L’ho incontrata e lei è giustamente molto protettiva nei confronti della memoria di Hampton. Il giorno prima della scena dell’assassinio non riuscivo a dormire, avevo un groppo allo stomaco, mi batteva il cuore, il mio corpo non sapeva distinguere fra recitazione e realtà. Abbiamo tutti sentito con forza la responsabilità di raccontare la verità di quelle persone le cui storie non erano mai state raccontate.