Lo stato di salute della musica contemporanea italiana? Ci vorrebbe una sessione di concerti e seminari lunga un mese per fare una diagnosi. Almeno nella parte compositori. Nella parte che riguarda gli interpreti, specie gli strumentisti che si dedicano a cercare il contemporaneo nell’universo sonoro (e culturale e sociale, com’è ovvio), la sessione breve del Festival che si è tenuto all’Area Sismica di Forlì ha già dato indicazioni utili. Stanno bene. Noti e meno noti. La pianista Ilaria Baldaccini, il contrabbassista Giacomo Piermatti, la clarinettista Roberta Gottardi, il chitarrista Donato D’Antonio, il flautista Yuri Ciccarese. E tra loro, in scena e come direttore artistico della rassegna, il pianista Fabrizio Ottaviucci, ormai favoloso.

PERÒ QUESTO FESTIVAL ha dato risposte anche sul versante compositori. Non tanto per le meraviglie di Luciano Berio, Salvatore Sciarrino, Stefano Scodanibbio, Fabio Cifariello Ciardi, personaggi storici (due defunti, purtroppo: Berio e Scodanibbio) la cui notorietà è consolidata. Quanto per la «scoperta» che poi è una «riscoperta» proprio nella cave dell’Area Sismica, di un portento di nome Osvaldo Coluccino. Dove si nasconde un autore di così grande levatura e perché il suo nome non circola dalla mattina alla sera tra i musicofili e sui giornali e tv e ogni altro mezzo di comunicazione?

Cinque delle sue Stanze per pianoforte, un ciclo scritto tra il 2004 e il 2011, sono state eseguite da Ottaviucci. Che ha una particolare sintonia con Coluccino (ma ce l’ha con Scelsi, con Cage, con Curran…). Compositore di suoni che desiderano muoversi al confine del silenzio. Di suoni che si intrattengono con l’idea di tenue assoluto ma poi scoprono che l’assoluto non esiste e allora scelgono la fragilità come modo di agire, come modo di essere ben dentro la costruzione di una piattaforma di simboli tra l’autore e il mondo. Passaggi sugli acuti «disincarnati» e ricchi di echi, itinerari di accordi che accarezzano ipotesi armoniche inaudite, una sorta di «ballata requiem» nell’ultima Stanza tutta intessuta su una linea melodica sorprendentemente cantabile.

MA C’È UN’ALTRA «scoperta». E di nuovo la domanda: come mai un originalissimo compositore come Giuseppe Bonamici, vissuto tra il 1936 e il 1978, non gode di considerazione adeguata? Si dovrebbe farne un culto. I suoi Tre Movimenti sono stati interpretati, anzi amati, dalla straordinaria pianista Baldaccini. Che ha una sonorità lucida, mai retorica, e una corporeità forte nel dar luce al puntillismo di Bonamici. Autore consapevole del messaggio weberniano ma proiettato in regioni sonore di discorsività distesa.
Torniamo agli strumentisti. Piermatti ha esaltato i glissando sistemici di Sciarrino in Esplorazione del bianco 1 e l’eccitante brano «on the road» di Scodanibbio Voyage that never ends/started. Gottardi ha capito, suonandola, che Berio per scrivere la sua superba virtuosistica Sequenza IX aveva studiato Benny Goodman.