Non è facile trovare un luogo che riesca a interpretare un’epoca storica in maniera così precisa da divenire simbolo di essa. Taranto, oggi, riassume alla perfezione l’Italia della Grande Depressione, è la città in cui i nodi irrisolti della nostra storia recente arrivano al pettine tutti insieme: governata da un’amministrazione fascistoide, collusa con la criminalità e leghista al rovescio negli anni ’90, vicina come nessun’altra al collasso finanziario negli anni zero, simboleggiata non dalla felice posizione geografica e nemmeno dalle rinomate «cozze pelose» del suo mar Piccolo bensì da un gigantesco camino fumante che, apprendiamo, ha persino un nome: E312. È la ciminiera dell’Ilva.
A fare di questa città bagnata da due mare la Detroit italiana – o la «Gran Torino» del sud, parafrasando Clint Eastwood – non è solo il comune destino industriale ma persino il fatto di essere anch’essa una città fallita, attraversata da un default economico innanzitutto, e poi da una profonda crisi d’identità sociale e culturale. Come interpretare altrimenti il gigantesco arrovellarsi – e dividersi – attorno a un dilemma apparentemente senza soluzione: fare a meno del suo passato industriale, buttarlo a mare insieme ai fanghi sversati per anni o lasciarlo evaporare come i fumi che hanno fatto ammalare operai e inermi cittadini, oppure continuare a sopportare le malattie, l’inquinamento e tutto il resto?
Sulla base di queste premesse, si comprende perché una siffatta città incontri così tanto interesse giornalistico e letterario. Franco Arminio in Geografia commossa dell’Italia interna (Bruno Mondadori) l’ha raccontata travolta da un ciclone, come New Orleans sotto i fendenti di Katrina. Giancarlo Liviano D’Arcangelo si è lasciato guidare da un operaio rimasto cieco durante i lavori di costruzione dell’Ilva (Invisibile è la mia vera patria, Il Saggiatore), Alessandro Leogrande ne ha ricostruito le vicende politiche e sociali degli ultimi trent’anni – dall’era «nera» del sindaco Cito a padron Riva (Fumo sulla città, Fandango).
Loris Campetti, in Ilva connection (Manni editore, pp. 182, euro 14), la percorre in lungo e in largo avendo come unico obiettivo la fabbrica, le scorie che ha disseminato e la famiglia che ha ereditato l’ex Italsider: quella dei Riva. Quando sbarcò a Taranto, rilevando per pochi danari la fabbrica dallo Stato, il capostipite Emilio fu accolto con grandi aspettative. Esordì mandando in pensione, grazie alla legge sull’amianto e a una dura vertenza con l’allora ministro dell’Interno Giorgio Napolitano, 12 mila operai «anziani». Il seguito è noto: l’inquinamento ambientale mai affrontato, le bonifiche solo promesse, le troppe connivenze con la politica e finanche – hanno raccontato le inchieste – con il giornalismo locale.
Chi conosce Campetti per averlo letto sulle pagine di questo giornale ha ben presente la sua passione per la vita vissuta, le storie operaie, il continuo mettere in connessione l’umanità dei personaggi con il loro essere animali sociali, e dei loro racconti farne elemento concreto di lotta politica. Il libro è strutturato come un lungo reportage attorno alla fabbrica-mostro tarantina, dove persino i cani sono in cassa integrazione, senza più greggi da contenere perché le pecore sono state abbattute: le loro carni contenevano troppa diossina. L’autore va a casa della moglie di un operaio precipitato dall’altezza di dieci metri, si fa portare in barca sul mar Piccolo a osservare gli allevamenti di cozze, dedica un capitolo al cimitero del quartiere Tamburi, dove le sepolture sono state bloccate perché i terreni erano troppo inquinati dai veleni della fabbrica. Incontra Alessandro Marescotti, ambientalista le cui denunce hanno svelato ciò che oggi è sulla bocca di tutti con almeno dieci anni di anticipo. Marescotti ha sostenuto il referendum sulla fabbrica della scorsa primavera, in cui sono andati a votare solo il 20 per cento dei tarantini, e ritiene che si tratti di una partecipazione qualificata dalla quale ripartire. È altresì convinto che l’Ilva, alla fine, chiuderà. Campetti invece ritiene sia stato un errore aver sottoposto al giudizio pubblico un ricatto di tale portata – lavoro versus salute, entrambi diritti fondamentali secondo la Costituzione italiana, come ricorda Stefano Rodotà. Non adotta un punto di vista da intervistatore neutro ma esplicita, e dibatte, la sua opinione: come si fa a dare un lavoro, di questi tempi, agli 11.600 lavoratori dell’Ilva, oltre ai quasi altrettanti dell’indotto? Chi garantisce che, se la fabbrica dovesse chiudere, la bonifica si farà? E chi la pagherà? La risposta dell’ambientalista è «l’esatto contrario di chi ti dice che l’Ilva val bene un tumore». E non appare possibile alcuna mediazione. È tutto qui, il dramma di Taranto, epicentro di una crisi sociale e culturale che avvolge tutta l’Italia, in questi tormentati anni ’10 del nuovo millennio.