Gilles Perret aveva incontrato Jean-Luc Mélenchon nel 2013 per Les Jours heureux. Ne era nata una simpatia che nel 2016 ha permesso a Perret di seguire Mélenchon durante la splendida campagna che il capo e fondatore della France Insoumise ha fatto per le elezioni presidenziali francesi. Armato come sempre solo d’una videocamera, Perret ha avuto un accesso al tempo stesso amicale e franco a ogni momento di questa campagna. Verremo infine a sapere qual è l’oscuro segreto di Mélenchon (o del suo movimento)?

L’insoumis moltiplica senza sosta le apparizioni di Mélenchon: Mélenchon davanti ai suoi collaboratori, da solo in treno, come ologramma in collegamento da Lyon, su un piccolo schermo e ovviamente in carne ed ossa davanti a piccoli gruppi o in mezzo a folle immense. Qual è quello vero ? La sua campagna è come un teatro. I suoi collaboratori sembrano sceneggiatori, registi saltimbanco d’altri tempi. Ma non è il teatrino della politica che Perret ritrae. Sorpresa, sorpresa: in ogni sua diversa manifestazione, Mélenchon è sempre testardamente uguale a se medesimo.

Si dirà che il film di Perret è propaganda. Lo si è detto (alcuni esercenti hanno rifiutato di diffonderlo con questo pretesto). È chiaro che Perret è un militante politico. E in verità non si fa torto all’Insoumis dicendo che è un film di propaganda – nella misura in cui questa parola non è per forza negativa e non è per forza sinonimo di truffa o manipolazione dell’opinione. Se fosse solo questo sarebbe un film relativamente poco interessante (e di certo in ritardo sul proprio obiettivo). Ma l’obiettivo de L’Insoumis non è fare della propaganda quanto piuttosto far emergere una domanda politica: cos’è la propaganda oggi in Francia ?

Una delle scene migliori del film è apparentemente la più ordinaria. È la sera del dibattito alla televisione: tutti i candidati arrivano negli studi televisivi. Le cineprese li aspettano nei vestiboli che portano ai camerini. I giornalisti cercano la battuta, lo sguardo, magari la rissa tra candidati dei quali commentano l’arrivo in diretta: «Le Pen sembra serena. Lo è veramente ? ». Oppure: «Fillon non ha salutato nessuno… Sarà teso?». È a questo livello che il giornalismo ha abbassato il concetto di verità: strappare delle emozioni o delle battute, prendere il candidato in fallo, penetrare dietro le quinte. Ovviamente, con questo non si penetra assolutamente altra apparenza se non quella che il giornalismo stesso produce. E non ci si sposta d’un millimetro dal terreno ideologico che i media costruiscono. Terreno che viene doppiamente delimitato: prima come apparenza, poi come verità.

Cogliere in fallo, mostrare la contraddizione, ridicolizzare il candidato è, il film lo documenta perfettamente, il lavoro principale dei media francesi. D’altro lato, gli stessi media, che va ricordato sono tutti nelle mani di nove miliardari, hanno costruito dal nulla un candidato vincente che per sei mesi ha capeggiato nei rotocalchi e alla televisione. Ne L’Insoumis si fa allusione alla differenza di trattamento (Mélenchon dipinto come un collerico, Macron sempre rilassato e sorridente). Ma la vera propaganda è ancora più perniciosa.

È il fatto che i media, con questo finto lavoro di svelamento (vi raccontiamo il vero Macron, il vero Mélenchon, ecc.) spostano il concetto di verità su un terreno dove è impossibile far nascere la questione del conflitto di classe.
L’insoumis è allora la storia di un doppio lavoro titanico. Da un lato quella del titano Mélenchon che, contro tutta l’ideologia mediatica, fa una campagna basata solo su un sistema coerente di contenuti: ecologia, economia, etica. Dall’altro un cineasta titanico, Perret, che con la sua piccola macchina da presa prova a fare un film totalmente opposto all’ideologia dominante. È il ritratto insubordinato di un insubordinato.