I 22 giugno 1986. Quarti di finale allo stadio Azteca, Messico. Si scontrano, letteralmente, Argentina e Inghilterra, le ferite della guerra per le Malvinas sono ancora aperte. Il primo tempo finisce zero a zero. All’inizio della ripresa arriva uno spiovente in area inglese. Il portiere Shilton è alto un metro e ottantacinque. Lo contrasta Maradona, più piccolo di una ventina di centimetri. Ma la prende lui, non di testa, ma di mano e segna. Rete convalidata. Finisce due a uno per l’Argentina. E a fine partita Diego dice di avere segnato «un po’ con la testa di Maradona, un altro po’ con la mano di dio».
Ecco il titolo del nuovo film di Sorrentino, È stata la mano di Dio (che mi permette di correggere un mio errore di un anno fa). Sì, perché quell’intervento divino ha consentito all’Argentina di vincere il mondiale e l’anno successivo ha salvato la vita a Paolo Sorrentino stesso. La storia, vera, è nota: il 5 aprile 1987, tifoso del Napoli di Maradona (che quell’anno vinse il suo primo scudetto), il sedicenne Paolo ha finalmente convinto il padre: andrà in trasferta a Empoli per vedere il Napoli, mentre i genitori vanno nella casetta di Roccaraso dove muoiono per esalazioni di monossido di carbonio.

PAOLO ha sempre affermato che Maradona gli ha salvato la vita, visto che avrebbe dovuto essere coi genitori, e ancora quando ha ricevuto l’Oscar per La grande bellezza, tra i ringraziati c’era Diego. Ma un film non è una ricostruzione pedissequa della realtà. Il protagonista si chiama allora Fabietto Schisa, circondato dalla frastornante e debordante famiglia, alle prese con una estroversione fantastica, esagerata, dall’inizio con la zia che incontra san Gennaro, al bagno collettivo in mare sotto la casa di Eduardo, dagli scherzi della madre, alla sorella perennemente barricata in bagno, e ancora contrabbandieri, mignotte e sceicchi, zie e zii tutti affettuosamente sopra le righe chi perché sovrappeso, chi perché truffatore, chi perché violento, tutti in grado di strappare sorrisi con battute micidiali in grado di stroncare interlocutori e buon gusto. Poi c’è qualcosa che affiora, non solo la fascinazione di Fabietto per le donne ancora da conoscere e per la vita ancora da assaporare, no, Paolo piazza nel suo racconto tre registi: Fellini che a Napoli fa un provino cui partecipa il fratello maggiore, Antonio Capuano che dà scorbutiche ma geniali indicazioni esistenziali-professionali e la videocassetta di C’era una volta in America di Sergio Leone, il suo film più amato.
Su questa impalcatura che abbandona ridondanze e barocco dei suoi ultimi film, Sorrentino ritrova la sua anima più autentica, più vera, appassionata e appassionante (detestata però dalla vicina altoatesina), lasciata solo per quel treno felliniano che lo porta a Roma dove senza alcuna tradizione famigliare intraprenderà la carriera che tutti sappiamo.

NEL FILM ci sono le fidejussioni del Banco di Napoli per comprare Diego, le immagini del mondiale, lo scudetto e l’allenamento di Maradona sulle punizioni come lezione di vita: la perseveranza. Dopo oltre trenta anni, era davvero giunto il momento di trasformare una vicenda personale e dolorosa in momento di condivisione. E l’elemento vincente del film sta proprio in questa ritrovata semplicità di racconto che segue l’ossatura della realtà, ma si riempie di emozioni per restituire un momento unico per una città e per il protagonista divenuto improvvisamente orfano. Due mondi che convivono e convincono sino in fondo grazie agli interpreti, Toni Servillo, Renato Carpentieri, Luisa Ranieri e Teresa Saponangelo che si rivela sempre più brava nel ruolo di innamorata e tradita, oltre che madre del sorprendente Filippo Scotti, Fabietto. E sui titoli di coda arriva struggente Pino Daniele con «Napule è mille culure, Napule è mille paure». Sorrentino dopo gli andreotti, i berlusconi, i papi e i gambardelli, è tornato a Napoli, è tornato a casa e ha magnificamente vinto il suo campionato personale.