Carmela attraversa Napoli che sembra una tempesta, sempre di corsa, sempre con qualcosa da fare, e soprattutto sempre in guerra contro la miseria, contro quel precariato al limite della legalità i cui confini sono molto incerti, contro i servizi sociali che le stanno addosso, minacciano di portarle via la figlia, Maria, una ragazzina silenziosa che non si capisce mai cosa le passa per la testa – dice sconsolata la preside a Carmela quando la piccola manda all’ospedale un compagno di classe. Anche a Carmela non parla, anzi non la vuole, le preferisce la madre, sua nonna, vivono tutte e tre insieme ma le stanno per sbattere fuori, Carmela sembra indifferente, evita l’argomento, la madre è arrabbiata, e così la sorella, sposata, coi figli e un lavoro, e persino l’amica rimane perplessa di fronte alle sue scelte che sembrano incoscienza o arroganza. L’unico che la guarda senza urlarle addosso è Tarek (Fabrizio Rogione), algerino arrivato a Napoli fuggendo la guerra civile, è gentile, riservato, sembra scrutarla nel cuore ma lei è difficile da catturare.

«ROSA PIETRA STELLA» – come una canzone – è l’esordio nel lungometraggio di Marcello Sannino, bravo documentarista (Corde; La seconda natura; Porta Capuana) che l’allenamento al corpo al corpo con la realtà ha saputo trasmetterlo a una narrazione che respira di luoghi, la fisicità di chi la abita, i corpi dei suoi personaggi, Carmela al centro della scena (magnifica attrice Ivana Lotito) e con lei la figlietta (Ludovica Nasti, la Lila bambina in L’amica geniale). E, naturalmente, Napoli che qui è altrettanto personaggio, accarezzata dalla luce di Alessandro Abate (e restituita nell’energia dal montaggio di Giogiò Franchini), quella città tanto narrata, icona di uno stereotipo che ne rende difficilissima la rappresentazione a cui Sannino oppone invece l’inatteso. La sua Napoli è vitale e insieme disperata, mischia le carte delle esistenze e le scompiglia, è caos, velocità, indifferenza, traffici che si fanno sulle persone, una fitta trama invisibile a cui ciascuno prende parte.

CHE FA CARMELA per vivere? Procura clienti a un avvocato losco, uno di quelli «ammanicati» coi portaborse intorno al palazzo di giustizia, che «crea» finti permessi di soggiorno per chi è clandestino; africani per lo più, piazzati a lavorare da qualche compiacente commerciante. Non c’è nessuna garanzia, si paga subito e in contanti (e senza ricevute) e ci si deve fidare, può andare bene o malissimo, come agli ultimi due ragazzi che nemmeno parlano italiano; a Carmela e all’avvocato hanno dato tutti i loro soldi ma l’uomo è sparito senza dargli nulla in cambio. E lei sta nei guai mentre si avvicina il giorno dello sfratto e la solidarietà è svanita per sempre…

È un film al presente quello di Sannino – che ha scritto la sceneggiatura insieme a Giorgio Caruso e Guido Lombardi – la cui scommessa è dare un’immagine, una storia a chi vive sui bordi – un sottoproletariato che ormai non si può più definire tale in una configurazione sociale nella quale le classi lasciano il posto al divario di miseria e lusso, perdendosi nella trama dei poteri, degli scambi, della vendita quotidiana. E questo ponendosi lontanissimo dai riferimenti «alla Gomorra», cercando piuttosto un conflitto quotidiano che si perde in infinite deviazioni, nei ricatti attuali e nelle pratiche antiche, immutabili nel tempo.

E però Rosa Pietra Stella è prima di questo il suo personaggio, un ritratto di ragazza in lotta, che cade spesso, fa molti errori, e si fa male tanto, ma è il suo modo rabbioso di ribellarsi a quelle «regole» che la mettono in un angolo, la calpestano, la ignorano umanamente, cancellando ogni tenerezza se non nell’amore per la figlia. Maldestro pure quello, ma come si fa a combattere da soli? Che la condizione di Carmela è di solitudine, resa più dura dall’essere donna, la sua è una lotta lontana dai sentimenti collettivi di cui pure rispecchia la condizione. Anche questo è il presente, forse ancora più violento che il film sa cogliere e restituire in modo diretto, seguendo il movimento di una vita e dei suoi inciampi.

PRODOTTO da Antonella Di Nocera, Gaetano Di Vaio, Pier Francesco Aiello, Rosa Pietra Stella è stato presentato nella sezione Voices del festival di Rotterdam che si è chiuso ieri, vinto anche quest’anno da una regista Zheng Lu Xinyuan (la scorsa edizione era Shengze Zhu autrice di Present. Perfect.), The Clouds in Her Room – che era uno dei titoli più attesi della competizione internazionale da sempre attenta – come il resto del festival – alla produzione asiatica.

Che festival è stato questo 2020 è difficile dirlo vista appunto la varietà (e la quantità) delle proposte, anche obbligata come dicono i curatori dal fatto di essere il primo festival dell’anno, vicino alla Berlinale – verso cui dirottano molti film. Di certo ha offerto l’occasione per scoprire film molto belli che non hanno circolato fuori dalle rassegne nazionali, in particolare – nella sezione The Tyger Burns – A Frenchman, il nuovo film di Andrei Smirnov, tra i talenti di punta del cinema sovietico degli anni Sessanta, rimasto in silenzio per oltre trent’anni e tornato al cinema nel 2011, e ora con questo film ambientato alla fine degli anni Cinquanta a Mosca, sulle avventure di uno studente, in cui l’ironia è dichiarazione di politica.

O The Nose or Cospiracy of Mavericks, ovvero le invenzioni delle avanguardie russe nella cifra dell’animazione di Andrey Khrzhanovsky.
The Cloud in Her Room è ugualmente un’opera prima, girato in bianco nero e immerso nei luoghi di una Cina indistinta, proiettata nello stato d’animo della giovane protagonista, una ragazza di vent’anni che prova a resistere, quasi con ostinazione ai mutamenti del tempo attaccandosi a una memoria della sua infanzia.

LA VECCHIA CASA dei genitori è il suo fortino, è vuota, abbandonata, la venderanno presto: ci abitavano quando lei era piccola prima della separazione, da figlia unica è rimasta con la madre mentre il padre ha una nuova famiglia. Muzi vagabonda in cerca di sé, è accanto alla mamma e alle sue serate di tristezza, interroga il padre sulla sua assenza, corre col fidanzato nella sua stanza da adolescente per fare l’amore e sparire di nuovo. È il suo passato quello eppure appare straniato, come se non le appartenesse, e così le persone che lo punteggiano, amici, parenti, ritrovati nelle vacanze per il Capodanno che l’hanno riportata nella sua città, Hangzhou – la stessa dove è nata la regista che, come dice parlando del film, ha utilizzato i propri ricordi e le esperienze personali del luogo, che è appunto la sua città, ma senza nostalgia. «Volevo che fosse un film sul presente, che lo spettatore vedesse quando accade attraverso il punto di vista di Muzi. Il suo scollamento dal mondo è uno stato d’animo che mi appartiene; spesso in una relazioni interpretiamo una parte, la figlia, la fidanzata, ci sentiamo vicini a qualcuno ma alla fine ciascuno si muove per conto proprio».

LE NUVOLE della stanza di Muzi scivolano nelle fantasie, si perdono nei sogni, sovrappongono desiderio e realtà, vivono di epifanie segrete, proibite, liberano un eros nelle immagini della regista che è raro nei film cinesi oggi. Più che un romanzo di formazione il vagabondaggio di Muzi appare come la canzone di una generazione sospesa tra solitudine e distacco, cercando una carezza impossibile.