Ci sono libri che, costruiti secondo geometrie ambiziose, assumono gradualmente la propria fisionomia, quasi riflettessero un processo di maturazione interiore destinato a risolversi poi all’improvviso in formule di abbagliante chiarezza. È il caso di Il futuro è storia di Masha Gessen (traduzione di Andrea Grechi, che avrebbe meritato una revisione editoriale più accurata – vari titoli o nomi figurano così come nell’originale inglese, senza alcun riferimento alle fonti russe, Sellerio, pp. 706, euro 18,00), una delle ricognizioni di maggior respiro centrate sulla storia recente della Russia, che si rivela specialmente quando l’autrice conia per i suoi personaggi (tutti realmente esistenti) la definizione di «dissidenti riluttanti».
Una nota di istintiva ritrosia a calarsi fino in fondo nel ruolo degli oppositori politici contraddistingue, seppur in misura diversa, Žanna, Maša, Lëša e Serëza, quattro appartenenti alla prima generazione post-sovietica, protagonisti di storie preziose per comprendere quel processo di «modernizzazione interrotta» che ha segnato e segna tuttora il volto della Russia.

Aspiranti alla normalità
I «dissidenti riluttanti» di Gessen sono giovani nati durante la perestrojka e cresciuti negli anni Novanta che vorrebbero soltanto poter condurre un’esistenza «normale» e che invece, vuoi per una sorta di indignata incredulità di fronte all’involuzione autoritaria attuata da Vladimir Putin, vuoi per i propri orientamenti sessuali o per il proprio retroterra familiare, si ritrovano «costretti» a partecipare alle proteste di piazza avvenute tra l’inverno del 2011 e la primavera del 2012. Il loro impegno politico prende forma malgrado un’estraneità non solo anagrafica all’esperienza della dissidenza sovietica verso la quale a volte avvertono una sorta di complesso di inferiorità. È il caso di Serëza, nipote di Aleksandr Jakovlev, membro del Comitato centrale, consigliere di Michail Gorbacëv e dal 1989 capo della Commissione per la riabilitazione delle vittime del Terrore staliniano.

Dopo la manifestazione di Piazza Bolotnaja del 6 maggio 2012 brutalmente dispersa dalla polizia, Serëza cerca invano dentro di sé l’autorità morale necessaria per esortare i compagni a proseguire la lotta: «Per poter dire agli altri di mettere a repentaglio la propria libertà, di rischiare il carcere russo, bisognava essere senza macchia. Serëza non era senza macchia».
Un’altra «dissidente riluttante» è Maša, al secolo Marija Baronova, forse la figura più affascinante del libro. Attivista vicina al collettivo delle Pussy Riot, giornalista per l’emittente televisiva indipendente Dozd’, poi collaboratrice dell’oligarca Michael Chodorkovskij, Maša è un personaggio contraddittorio, che a dispetto dei suoi comportamenti anticonformisti, vorrebbe entrare a far parte dell’establishment e non si riconosce affatto nel ruolo della «prigioniera politica di professione» che l’opposizione le ha affibbiato dopo il suo coinvolgimento nel caso giudiziario a carico dei dimostranti di Piazza Bolotnaja.

L’ambizione personale che anima Maša sembra invece mancare a Žanna Nemcova, l’unica figlia di Boris Nemcov, l’ex delfino di Boris El’cin detronizzato da Putin alle soglie del nuovo millennio. Affezionatissima al padre, Žanna accetta di candidarsi alle elezioni amministrative nelle file dell’opposizione più che altro per accontentarlo; presenzia con lui a qualche manifestazione, ma senza rinunciare ai tacchi a spillo.

Discriminazioni sessuali
La politica travolgerà la sua esistenza soltanto il 27 febbraio 2015, quando Nemco verrà assassinato nelle immediate vicinanze del Cremlino, in circostanze mai del tutto chiarite. Di fronte a quello che le appare un omicidio su commissione finalizzato a eliminare un avversario scomodo, Žanna sceglie la via dell’emigrazione, un passo che la accomuna al quarto protagonista, Lëša, sociologo cofondatore dell’unico istituto di ricerca russo sulle minoranze sessuali. Nel 2014 anche lui parte per l’America, spaventato dal clima di odio crescente nei confronti dei gay. Il suo destino riflette quello della stessa Gessen, trasferitasi nel dicembre del 2013 a New York (dove aveva studiato negli anni Ottanta) allorché il governo russo aveva cominciato a paventare l’eventualità che i figli adottati da genitori dello stesso sesso potessero essere sottratti loro d’ufficio.

Per ricostruire tassello dopo tassello questo quadro a dir poco desolante, la giornalista nata a Mosca nel 1967 si affida a un metodo opposto a quello di Svetlana Aleksievic, che pure in Tempo di seconda mano aveva auscultato in tutta la sua ampiezza il trauma post-sovietico: non trascrizioni dalla viva voce dei protagonisti, bensì un ferreo controllo autoriale sulle loro storie, mai percepite come autosufficienti, bensì smontate da un pervicace sguardo analitico.

Gessen concede assai poco spazio all’emotività, convinta che le esistenze di Žanna, Maša, Lëša e Serëza possano diventare leggibili esclusivamente alla luce delle teorie (non importa se velleitarie, contraddittorie o strumentali) elaborate dai professionisti delle scienze umane e sociali che, nel corso dei decenni, si sono sforzati di interpretare quella «perdita d’identità e di radici di entità senza precedenti» che è stata il crollo dell’Urss. Per questo l’autrice introduce nell’architettura già alquanto complessa del suo libro altre tre figure collaterali: il sociologo Lev Gudkov, la psicoanalista Marina Arutjunjan e il filosofo Aleksandr Dugin. Proprio a loro spetta il compito di inquadrare le microstorie dei «dissidenti riluttanti» in una cornice concettuale più vasta.

Se Dugin, sodale di Eduard Limonov nelle file del partito nazionalbolscevico negli anni Novanta e profeta della corrente eurasiatica nel decennio successivo, si autonomina portavoce della «maggioranza aggressivamente obbediente» che approva il giro di vite di Putin, Gudkov e Arutjunjan si ritrovano invece al fianco a un’intelligencija disarmata che, dopo la repressione delle proteste, pare non aver più voce in capitolo.

Un’ansia perenne
La diagnosi da loro formulata, assai drammatica, constata non solo la morte di una democrazia che «non è mai realmente nata», ma anche la presenza di una pulsione autodistruttiva che si è impadronita dell’intero paese. Impoverita e depressa, la Russia di Putin viene mantenuta in uno stato di ansia permanente che la condanna alla paralisi; tra guerre, crisi demografica e altre calamità, la vita stessa sembra essere diventata un «agente straniero», commenta Gessen, utilizzando la definizione affibbiata per legge nel 2013 a molte Ong e associazioni invise alle autorità. L’unico conforto offerto ai cittadini è l’adesione alle narrazioni paranoiche confezionate dai media, per cui l’origine di tutti i mali viene proiettata all’esterno e scaricata sull’occidente, sui «nemici della Russia», sui gay… Cupa ma lucida, l’analisi è sorretta da una sincera fede negli strumenti «illuministici» della ragione.