Tutto comincia con un’immagine: il volto di Descartes è arrivato fino a noi grazie a un dipinto oggi conservato al Louvre, per molto tempo attribuito a Frans Hals, forse il maggiore ritrattista olandese del Seicento, di sicuro uno dei più prolifici. Ma, com’è stato poi dimostrato, quel quadro è sì realizzato alla maniera di Hals: non è di sua mano. L’artista anonimo del dipinto, che avrebbe poi reso eterni i tratti e l’espressione di Descartes, quasi sicuramente utilizzò come modello un olio su tavola di Hals dai tratti molto meno curati, ma attribuibile con certezza al maestro olandese. Oggi è conservato a Copenhagen.
Di Descartes nel Novecento si è parlato soprattutto in termini quasi simbolici, assumendolo come il paradigma di una modernità che pone nel soggetto il fondamento di tutto. Non che sia mancata l’attenzione per la complessità del pensiero cartesiano, ma di certo – da un punto di vista più generale – Descartes è legato alla rappresentazione che di lui hanno prodotto i critici della modernità, Heidegger in primo luogo. Lo si è dunque letto come uno dei padri della scienza moderna, il filosofo della soggettività, l’ideatore di una formulazione del dualismo mente-corpo ancora oggi discussa in filosofia della mente. Il libro di Steven Nadler Il filosofo, il sacerdote e il pittore Un ritratto di Descartes (traduzione di Luigi Giacone, Einaudi, pp. 240, euro 30,00) è una buona occasione per guardare le cose da un’altra prospettiva, portando in superficie anche aspetti magari non decisivi della parabola teoretica cartesiana, ma in grado di produrre un’immagine più articolata e vitale di questo straordinario pensatore.
Il ritratto di Descartes che Nadler offre al lettore è anzitutto una ricostruzione storica delle vicende che riguardano le pochissime immagini del filosofo giunte fino a noi. Attraverso questa indagine storico-artistica l’autore scava nel pensiero e nella vita di Descartes, cercando di comprendere come un uomo presuntuoso ma estremamente valente abbia mirato a scalzare la filosofia scolastica insegnata nelle università con il suo nuovo sistema. Il ritratto di Descartes scivola allora sul piano teorico e diventa una descrizione dei capisaldi della sua filosofia. In particolare, Nadler sottolinea come il nucleo teoretico del pensiero di Descartes consista in una costruzione complessa, un percorso articolato e irto di difficoltà attraverso il quale si dovrebbe giungere a una rifondazione del pensiero filosofico nel suo insieme.
Francese di nascita, discendente di una famiglia altolocata, studente in un collegio gesuitico prestigioso, Descartes divenne presto insoddisfatto della cultura umanistica nella quale si era formato: troppo vaga, troppo verbosa, troppo imprecisa. Il suo obiettivo era la fondazione assoluta del sapere umano e il metodo per raggiungerlo avrebbe dovuto ricalcare le orme della ricerca scientifica che in quel tempo stava cominciando a muovere i primi passi. La Francia era un terreno ostile per realizzare questo progetto. Troppe ingerenze: l’Inquisizione, la politica, gli amici, la vita sociale. Troppe distrazioni. Quello che Descartes cercava era invece uno spazio tranquillo dove poter consacrare la propria vita allo studio, alla lettura, alla scrittura.
Appena conobbe l’Olanda se ne innamorò, nonostante nella prima metà del Seicento fosse un paese protestante nel quale un cattolico come lui avrebbe finito per diventare parte di una minoranza sparuta, poco visibile ma tutelata. In ogni caso, ne avrebbe fatto la sua patria d’elezione, salvo alcuni brevi ritorni in Francia. In Olanda concepì e scrisse la sua opera filosofica matura: progettò e edificò il sistema che avrebbe dovuto ribaltare dalle fondamenta il pensiero filosofico.
Descartes mirava a sconfiggere gli scettici sul loro stesso terreno e per questo ammise in via preliminare il dubbio. Un dubbio che investe tutta la realtà e, addirittura, la nostra stessa esperienza della realtà. Come possiamo conoscere la verità? Come possiamo essere certi che ciò che denominiamo «conoscere la realtà» non sia un’esperienza onirica, un’illusione, una fantasia? La strada che Descartes inventò per rispondere a queste domande si focalizzava sul pensiero, come ormai è universalmente risaputo. Cogito ergo sum. Nel pensare c’è un appiglio indubitabile.
Fin qui, nessuna novità eclatante rispetto a quanto si trova nelle mille presentazioni sintetiche della filosofia cartesiana. L’intelligenza di Nadler però consiste nel guidare il lettore fino a riconoscere come questa mossa teoretica sia strettamente connessa alla possibilità dell’indagine scientifica. In sostanza, alla possibilità di raggiungere una certezza assoluta nella conoscenza della realtà. L’essere umano è mente e corpo, res cogitans e res extensa. Se si indagano le sorgenti del pensiero, sostiene Descartes, non si può non riconoscere come Dio sia il fondamento primo di tutta la realtà, principio epistemologico assoluto e indiscutibile. Ma ciò non porta soltanto – come affermano molti critici del pensiero cartesiano – a una specie di capitolazione del pensiero filosofico, che in questo modo si consegnerebbe mani e piedi a un principio teologico indimostrabile, rispetto al quale ogni argomentazione razionale è costretta a cedere il passo. Infatti il disegno di Descartes, visto sotto un’angolazione diversa, salvaguarda la stessa possibilità della ricerca scientifica. «La preoccupazione principale di Descartes non è l’apologetica cristiana. Il dualismo metafisico che svuota il regno corporeo di qualsiasi elemento spirituale o caratteristico della mente […] opera in realtà a vantaggio del progetto scientifico di Descartes. […]Qualunque cosa avvenga nel mondo fisico deve essere spiegata in base ai soli principi materiali».
In Olanda Descartes cambiò spesso casa e città, fino a quando decise di stabilirsi in campagna, in un piccolo villaggio del Nord. Pur nella solitudine e nell’isolamento che aveva ricercato con perseveranza ma che non gli si resero sempre facili, Descartes mantenne contatti con il mondo scientifico e culturale olandese e europeo. Più vicino a lui, trovò due sodali, due sacerdoti cattolici, con i quali intrattenne rapporti frequenti e conversazioni che gli alleviavano i lunghi inverni olandesi. Uno di loro, padre Bloemaert, divenne suo buon amico: era un corrispondente arguto, un compagno di letture, una specie di gemello intellettuale. Chi ha la buona sorte di averne uno sa quanto possa valere. A maggior ragione lo sapeva un filosofo nel mirino delle gerarchie ecclesiastiche di mezza Europa.
Nel 1649 Descartes venne convocato da una testa coronata: la regina Cristina di Svezia lo voleva alla sua corte. Pur riluttante, Descartes accettò. «Insoddisfatto da un semplice addio, e sicuro di non rivedere mai più l’amico, Bloemaert volle avere un ricordo di Descartes prima che il filosofo salpasse per la gelida Svezia». Quasi sicuramente Bloemaert contattò il miglior pittore sulla piazza, Hals, anche se non ne abbiamo prove inconfutabili. Non senza sforzo (Descartes era arrogante, non vanitoso), convinse l’amico a prestarsi come modello. In un paio di sedute Hals dipinse un olio su tavola che Bloemaert avrebbe conservato in memoria del suo amico e che qualche anno più tardi un abile epigono anonimo copiò con maestria.

Descartes non superò il primo inverno svedese. Nei primi giorni di febbraio contrasse una polmonite. L’11 febbraio 1650 morì, pochi mesi dopo aver lasciato la sua patria intellettuale e forse il miglior amico che avesse mai avuto. Mirabile compendio di tutta questa vicenda, oggi a noi rimane un ritratto. Anzi, due.