La Berlinale che si è appena conclusa ha puntato – e non solo con l’Orso per la sceneggiatura a Favolacce – su un cinema italiano nuovo, diverso, capace di mettere in discussione i generi e i riferimenti dominanti. Ma a saper (voler) guardare questo cinema esiste già da un po’, magari decentrato rispetto ai «sistemi», e però vitale, sveglio, pieno di invenzioni . Ne è una prova un regista come Luca Ferri il cui nuovo film La casa dell’amore era nella selezione del Forum – dove a rappresentare l’Italia c’era anche Zeus Machine. L’invincibile di Zapruder. Ferri, quarantenne, che la sua biografia ci dice «autodidatta», ha presentato la sua opera in molti appuntamenti internazionali, festival come la Mostra di Venezia (Colombi), il festival di Locarno (Dulcinea), quello di Torino (Abacuc), gallerie come Macro a Roma, Mambo a Bologna, lo State Museum of Architecture di Mosca, componendo una ricerca dentro al fare cinema e all’immaginario che ne esplora le forme per interrogarle.

LA CASA dell’amore è quella di Bianca, transessuale di professione prostituta, in una periferia milanese appena intuita da qualche scorcio fuori dalla finestra. La regia non esce mai dall’appartamento come vuole il progetto al cui interno si colloca il film, che è l’ultimo capitolo di una trilogia «domestica» – preceduto da Dulcinea e Pierino: rimaniamo lì, tra quelle mura, e nelle stanze illuminate dalle candele sempre accese i cui dettagli, oggetti accumulati, silenzi, vuoti narrano senza parole la vita di chi vi abita. È invece il mondo che entra nella casa, i clienti di Bianca, le sue telefonate con Natasha, la sua compagna brasiliana che è ora in Brasile e dopo molto tempo sta per tornare, un’assenza che è un’attesa e insieme una promessa, qualcosa che Bianca teme nonostante tutto.

COSA è dunque il quotidiano di Bianca col telefono che squilla spesso, i clienti in cerca di un incontro nel quale vivere le loro fantasie, di una «trasgressione», di una consuetudine rassicurante che gli permette loro di essere sé stessi oltre le apparenze? Ferri filma (con la complicità di Pietro de Tilla e Andrea Zanoli alla fotografia) , e non importa se le diverse figure che passano nell’appartamento sono ««attori» o persone «reali» che in fondo ciascuno interpreta qualcosa fosse appunto la propria fantasia. La sfida riguarda le immagini, e soprattutto lo sguardo che le fonda: come non diventare «voyeur» e invece essere compagno dello svolgersi dei giorni, né invisibile – che sarebbe disonesto – né invasivo? Bianca all’obiettivo non si rivolge mai per fare la narrazione di sé, noi spettatori siamo insieme a lei nello svolgersi del presente, tra letture, bottiglie vuote, i poster delle mostre del padre, scultore, qualcosa che suggerisce, che lascia immaginare (forse) di lei, cioè del personaggio che è nel film in ogni istante e in ogni fotogramma.

È IN QUESTA distanza di tenerezza che si racchiude la verità del film, che è la scelta di un punto di vista, da cui entrare in una realtà senza clamori e col quale costruire una relazione con chi è filmato. Bianca gioca, sorride, parla delle sue tettine piccole – «solo una seconda» , dei fianchi ingrossati dagli ormoni, si trucca, festeggia con le amiche pure se Natasha è sparita. È viva, reale, esiste nel suo universo, e insieme è invenzione di cinema.