Affrontare il rapporto che la cultura italiana e quella internazionale intrattengono con il «continente Primo Levi» è quanto di più arduo uno studioso possa darsi come compito. Ciò malgrado il fatto che Levi si presenti, agli occhi dei suoi innumerevoli lettori, come un autore il cui spessore culturale, ma anche il senso della sua stessa esistenza, siano evidenti nel loro significato letterario e nel loro lascito etico. Quanto meno in Italia, dove è divenuto il testimone per eccellenza della deportazione nei lager nazisti. Generazioni di studenti, soprattutto dagli anni Ottanta, si sono confrontati con alcuni suoi testi che sono diventati veri e propri classici della memoria. Quasi una sorta di canone culturale, che si affianca alle letture, rigorosamente obbligate, di un Manzoni piuttosto che di un Dante e così via. Non di meno, da dopo la sua tragica scomparsa, avvenuta nel 1987, l’attenzione verso il personaggio pubblico, costruito soprattutto in assenza della persona, ha fatto premio su molti altri ordini di considerazione. Inevitabili, quindi, le stratificazioni di interpretazioni, di usi e, forse, anche di alcuni ricorsi inflattivi.

Rimane il fatto che il lascito intellettuale, al netto degli investimenti operati dall’industria culturale, dall’editoria, dalla scuola e da quant’altri, sia ancora a tutt’oggi una sfida aperta. Come la sua opera, caratterizzata per intero e in tutto il suo percorso, da un senso di interiore insoddisfazione per il modo in cui andava, di volta in volta, proponendo al pubblico ciò che era oggetto delle sue riflessioni. Quindi, dal bisogno di andare oltre se stesso.

Il senso dell’insufficienza delle parole, da questo punto di vista, è uno dei temi ricorrenti nella scrittura di Levi: insufficienza come inadeguatezza rispetto alle cose del modo ma anche riguardo al bisogno di dare a queste cose un nome. Si tratta del lascito dell’esperienza della deportazione ma va ben oltre essa, divenendo un po’ la cifra fondamentale del suo rapporto con la vita. Se nel Lager le cose perdevano il loro abituale significato, nell’esistenza di ogni giorno il problema di costruire dei nessi, di offrire delle interpretazioni, diventava prioritario.

Un procedimento chimico

Una radicale domanda di senso, infatti, ha accompagnato tutta la traiettoria esistenziale di questo autore, intersecandosi con il senso della casualità, che era in lui molto spiccato. Uno dei maggiori studiosi e conoscitori di Levi, Marco Belpoliti, ne offre adesso uno spaccato vivo con il volume Primo Levi. Di fronte e di profilo (Guanda, pp. 737, euro 38). Si tratta di una enciclopedia interattiva sull’autore, trattandosi, del pari ai volumi e alle tante parole licenziate dal biografato, di un dispositivo di interpretazioni aperto ad ulteriori evoluzioni.

Il metodo con il quale il biografo ha affrontato Levi, infatti, è quello di cogliere nelle infinite pieghe delle sue tante pagine, di un repertorio fotografico circoscritto ma significato, di un lemmario composito, di indizi e tracce, i tratti di fondo di una figura che per essere restituita nella sua unitarietà richiede, prima di tutto, di essere «smolecolarizzata», ossia scomposta, e poi ricomposta passo dopo passo. Si tratta di un procedimento chimico, applicato alla letteratura, del pari alla professione che Levi da sempre ha esercitato, aiutandolo a salvarsi dal gorgo di Auschwitz prima, a dare voce a sé, alla sua esperienza esistenziale ma anche alla sua personalità dopo, nonché a preservarne la vita finché ciò è valso a farlo. Cercare quindi nel corposissimo testo di Belpoliti la biografia definitiva è non solo vano ma, per più aspetti, inutile. Non è ciò che il volume intende offrire quanto, piuttosto, l’intreccio delle strade di significato intellettuale, politico, letterario che ne compongono l’esistenza. Sotto il segno della complessità, poiché Primo Levi era figura di per se stessa complessa, stratificata, a tratti non prevedibile. Qualcosa di molto distante, per l’appunto, dei ripetuti processi di sacralizzazione del nome di cui, a morte consumatasi, sarebbe diventato involontario protagonista.

Ci sono però anche altre chiavi di lettura che si impongono per un testo così impegnativo ma avvincente. A parte la sconcertante erudizione dell’autore, che sembra avere esplorato ogni anfratto dell’altrui esistenza, di cui ha una conoscenza pressoché millimetrica, quel che ne emerge è anche il bisogno di un confronto tra generazioni diverse.

Epoche a confronto

Belpoliti è nato una decina d’anni dopo la guerra, e quasi trentacinque anni dopo Levi, attraversando le vicende molto intense, non meno che molto ideologiche, dei decenni successivi, fino alla caduta del Muro di Berlino, al declino della politica e alla privatizzazione dei sentimenti collettivi. La maggiore fortuna di Levi si accompagna a questa stagione sopravveniente, pur non vivendola in prima persona poiché la sua esistenza si era nel mentre già conclusa. Quasi che le sue parole, scolpite una volta per sempre in un capolavoro universale come I sommersi e i salvati, svolgessero già una supplenza rispetto ad un’epoca di passioni tristi, di ripiegamento, di annullamento del conflitto, e della sua mediazione, come occasioni per andare oltre l’esistente.

Per il biografo c’è quindi sia la necessità di consegnare al lettore chiavi di comprensione che non inchiodino Levi alla sola esperienza del campo di concentramento, trattandosi, al contempo di un’opera letteraria che parte da quelle vicende per poi assumere una fisionomia autonoma, sia di riflettere su una differente ricezione generazionale, quindi variabile nel corso del tempo, dei testi che ci sono consegnati.

Un testimone totale

Non esiste un Primo Levi sempre uguale a se stesso e neanche un «testimone totale», completamente assorbito in questa funzione – in ciò, quindi, differendo molto da Elie Wiesel – ma una materia letteraria molto malleabile, sottoposta al tempo così come avviene con i reagenti chimici. Levi, da questo punto di vista, costituisce per eccellenza la figura dell’autore incompiuto. Vuoi perché in eterno conflitto interiore tra il bisogno di dire e, nel medesimo tempo, il pudore estremo che lo accompagnava, vuoi per una pervicace insoddisfazione verso le cose ma anche nei confronti delle proprie parole. Su questo versante non fonda un filone o un genere ma recupera e rielabora molte delle suggestioni della letteratura del secolo appena trascorso, mettendola in tensione con le grandi questioni che hanno attraversato il suo tempo, a partire dal tema della radice del male.

Belpoliti ci restituisce questo ritratto in movimento. Una sorta di figura magmatica, inquieta, irrisolta perché sorprendente. La questione di fondo è questa: può Levi aiutarci ad andare oltre l’ultimo testimone, offrendoci lessico e sintassi per affrontare i tempi correnti con lo spirito di chi non si sente da essi sconfitto anticipatamente? Poiché in lui la scrittura è sempre una commistione tra l’ordine della ragione individuale e l’inesorabilità del processo storico. Un corpo a corpo, in altri termini.