Celebri i numerosi, assidui studi che Francis Bacon realizza sul ritratto di papa Innocenzo X Pamphilj, eseguito nel 1650 da Diego Velázquez. Ne osservo uno, tra i primissimi realizzati, Testa VI. 1949, un olio su tela di 93×77 centimetri, conservato a Londra presso The Arts Council of Great Britain. Inquadrato a mezzo busto, avvolto in una penula di seta viola, un bavero candido, sull’effige del Pamphilj dipinta da Velázquez, Bacon opera una forte riduzione. La taglia e la inserisce in una sorta di cubica teca trasparente. La sfigura: camauro di raso rosso, fronte, occhi e naso abrasi, annullati, diresti, più che cancellati, in verticali pennellate antracite.

La mandibola, adagiata sul bianco colletto, scatta a spalancar la bocca ed a mostrare i denti. Così, tuttavia immobile nella seduta di posa davanti al pittore che lo sta ritraendo, Pamphilj ha un improvviso, imprevedibile scatto. Non muove il busto, ma azzarda un irriverente sberleffo, una boccaccia sul muso di Velázquez. Un gesto di scherno che dobbiamo attribuire a papa Innocenzo o ad una irrisione di Bacon? È Bacon che dileggia l’opera di Velázquez? O non, piuttosto, è Bacon che deride il papa, essendosi egli messo al posto di Velázquez? Il suo intento non è forse quello di procedere a nuovi compimenti del ritratto di Innocenzo, altrettanto originali rispetto a quello portato a una sua conclusa perfezione nel 1650? Con il gioco delle varianti, Bacon libera le possibili altre soluzioni che Velázquez ritenne di non voler perseguire. Allorché decide di operare all’interno dei dati compositivi stabiliti da Velázquez, Bacon assume quei costrutti nella loro imperfezione, li saggia e li verifica e interviene mutando, emendando: re-inventando.

È ben dunque Bacon che esegue, ora, il Ritratto di Innocenzo X in posa davanti a lui, come in posa stava, quei giorni del 1650, Giovanni Battista Pamphilj seduto, pazientemente immobile, davanti al cavalletto di Velázquez. Pittura che si fa, prende forma e concresce da pittura. E la bocca che si apre in questa tela di Bacon, Testa VI. 1949, mantenuta serrata da Velázquez perché lo sguardo che ti lanciano gli occhi del papa a penetrarti non consente a quelle labbra se non un trattenuto respiro, non è Bacon a spalancarla ma, nell’urlo che nel 1893 apre al Novecento e ancora dura, Edvard Munch. Resterà in posa nell’atelier di Bacon per lunghi anni il Ritratto di Innocenzo X di Velázquez, regolarmente visitato e ripreso. In una versione del 1962, Studio di Innocenzo X, vasta tela ora al Louisiana Museum di Humlebaek, la bocca è tornata nell’attitudine conferitale da Velázquez.

L’urlo tace, ma ne resta l’eco. Agita e fa debordare nel rimbombo le vesti purpuree di Innocenzo. E sembra essersi ripercosso, rendendone inerti le membra, entro il corpo stesso del papa. Che si piega, si sloga, si rattrappisce quasi, riducendosi a un fagotto che non trova modo d’assestarsi nell’abbiglio delle stoffe gualcite. E il volto. Sfigurato nei connotati, pur se li riconosci, uno per uno, puntualmente ripresi sulla falsariga di Velázquez.

Ma dilavati, colati, effusi, liquefatti. Pittura che nasce dalla pittura, dunque. E che, a mezzo di una ricerca continua, è tesa ad accrescerne le acquisizioni ed a recare ulteriore conoscenza. C’è una linea maestra lungo la quale ciascun pittore, come Bacon nei suoi rapporti con Velázquez e Munch, mantiene la carreggiata ove procede nell’ordine dei suoi studi e trova se stesso. Strada ardua da prendere e assai più dura da percorrere. Pittori di grande talento e intelligenza hanno, lungo quel cammino, speso le loro energie. Nell’opera di Pietro Annigoni, elevato raro talento, prevale la dipendenza da pitture riconosciute come perfette. E ripete quella perfezione. Il 2 ottobre del 1963, a New York, Annigoni, annota in un foglio del suo diario: «Sulla copertina di Time, oggi il mio ritratto di Erhard – nell’interno riprodotti alcuni quadri di Francis Bacon – che continua a ossessionarmi come un lontano richiamo. Per la prima volta, l’anno scorso, rimasi fortemente scosso dalle sue opere esposte alla Tate di Londra. L’ho rivisto recentemente alla Guggenheim di New York. Ancora fortemente scosso».