Una grande in piazza Grande: Françoise Fabian. L’attrice che ha lavorato con i più importanti registi francesi, senza trascurare gli altri, italiani e Buñuel compresi, è la protagonista di Rose, firmato da Aurélie Saada, artista dal talento versatile. Rose è una donna di origine ebraica, la scopriamo alla festa per l’anniversario di nozze. Festa rispettosa di tutte le tradizioni e le canzoni del caso. Solo che l’amato marito è messo male, infatti muore.

Ecco allora una nuova occasione per rileggere le tradizioni, dallo specchio coperto in segno di lutto agli abiti che subiscono una piccola lacerazione a futura memoria. Per fortuna ci sono anche i bimbi che stemperano la veglia giocando «al nonno» stesi sul letto e qualche adulto che rispolvera lo spirito caustico provocando risate liberatorie.

Ci sono anche i tre figli della coppia. Uno è medico, non particolarmente felice nel matrimonio che gli ha regalato due gemelli inchiodandolo al ruolo di capofamiglia responsabile. Una è ancora innamorata del marito che ormai si è ricostruito una vita e un’altra famiglia. Il terzo vive con mamma, è un po’ sbandato, e deve subire un processo per ricettazione.

ROSE ALL’INIZIO è completamente smarrita, era il marito a occuparsi di tutto. Se ne sta lì davanti alla tv, non si lava, e si trascura sempre più. Poi comincia a uscire controvoglia dal guscio, sino a scoprire un’insospettabile e nuova e sacrosanta voglia di vivere che sconvolge i figli. Tutto ruota intorno alla protagonista, capace di cantare in lingua ebraica o in yiddish, di preparare manicaretti orientali (quando ottenebrata non sbaglia ricetta) merito di Fabian, nata in Algeria all’epoca francese (era il 1933), poi arrivata a Parigi nel 1950 per trasformarsi in gran donna del cinema, dello spettacolo e della vita.

Accanto a lei i tre interpreti dei figli. Aure Atika, la figlia, inevitabilmente più complice dei fratelli rispetto alle stravaganze materne, Grégory Montel (in evidenza con la serie Netflix Chiami il mio agente!) bietolone incapace di gestire la propria vita nonostante sia un chirurgo, infine Damien Chapelle cui spetta il compito di essere, nonostante tutto, il più intransigente nei confronti di mamma. Aurélie Saada si affida totalmente alla sua interprete, ricambiandola di rispettoso affetto e di talento nel tratteggiare una riscoperta vitalità tardiva, ma pur sempre vitalità.

NELLA SEZIONE Cineasti del presente approda invece una produzione italiana, targata Fandango: Il legionario, firmato dal bielorusso Hleb Papou. La storia di due fratelli camerunensi e della loro madre su scenario romano. Un dramma famigliare perché uno è celerino in una squadretta sbrigativa, l’altro vive, con mamma e altre centinaia di persone in un palazzo occupato da molti anni e che rischia di essere sgomberato da un momento all’altro. Un conflitto famigliare che si inserisce nelle contraddizioni reali di un paese che vorrebbe rifiutare gli immigrati salvo gioire quando vincono qualche medaglia olimpica cantando l’inno di Mameli.

ALTRA PRESENZA italica importante quella dell’ottima retrospettiva curata da Roberto Turigliatto dedicata a Alberto Lattuada. Tra l’altro Jacqueline Sassard, da lui fatta conoscere come protagonista di Guendalina, si era da decenni trasferita in Ticino dove è mancata un paio di settimane fa. Ma le protagoniste di Lattuada continuano invece a illuminare il grande schermo con la loro straordinaria presenza. E chissà che questa retrospettiva non contribuisca a ricollocare criticamente un autore relativamente snobbato e ricordato quasi esclusivamente per avere scoperto attrici giovanissime. Che non è una colpa, ma Lattuada merita maggiore attenzione.