In una sala del Museo di Storia Naturale di Firenze si trovano conservati una grande quantità di oggetti, utensili ed altro materiale vario legato agli Ainu, una popolazione che fin da tempi remoti abitava la zona più settentrionale dell’arcipelago nipponico ed alcune isole oggi territorio russo, una collezione donata al museo da Fosco Maraini che egli stesso mise insieme nel periodo del suo soggiorno prebellico a Hokkaido. Tutto questo materiale fu miracolosamente salvato dai bombardamenti e nascosto a Kyoto, e una volta finita la Seconda Guerra mondiale portato in Italia e donato al museo dallo scrittore fiorentino.

La cultura Ainu e l’Italia tornano ad intrecciarsi ed incrociarsi in questi giorni a Tokyo, proprio nella giornata di oggi infatti all’Istituto italiano di cultura della capitale giapponese viene inaugurata una mostra fotografica intitolata «Gli Ainu oggi», opera della fotografa Laura Liverani, artista che ha fatto dell’Estremo Oriente la sua seconda casa già da parecchi anni e che alla comprensione della cultura di questa etnia ha dedicato molte delle sue energie e dei suoi lavori in questi ultimi anni. Attraverso ritratti ma anche con alcuni materiali audiovisivi, la mostra si presenta come un percorso visivo attraverso il quale riflettere sul senso d’identità dei pochi Ainu rimasti, cercando di preservare usi, costumi e lingua ma anche cercando di trovare un senso a questa complessa identità, reinventando cioè il proprio essere Ainu nel Giappone contemporaneo.

La mostra è una traccia ed una parte di un più ampio progetto iniziato da Liverani ed altri compagni di viaggio con la fondazione della Lunch Bee House e che vedrà a breve un’altra concretizzazione visiva in un documentario ora nella sua fase di montaggio.

Scandagliare e rivalutare la cultura di un gruppo etnico «minoritario» che nel corso dei secoli scorsi è stato spesso fatto oggetto di assimilazione culturale quando non di persecuzione in nome di una «purezza» giapponese, significa non solo far valere i diritti di una diversa etnia, peraltro riconosciuta come gruppo etnico solo nel 2008, ma anche mettere in discussione il senso d’identità tout court. Portare in primo piano i margini, il fuori campo di ciò che di solito è visibile e spettacolarizzato, nel nostro caso gli Ainu che abitano a Tokyo o quelli del villaggio di Nibutani a Hokkaido dove il settanta percento della popolazione appartiene a quest’etnia, ma allargando lo sguardo lo stesso discorso si potrebbe fare per i zainichi, i coreani di seconda o terza generazione, i burakumin, i senza casta, e le genti che abitano nell’arcipelago di Okinawa, è un atto liberatorio e che porta chiarezza.

In un epoca dove va di moda il «multiculturalismo», si vive in prossimità ma ognuno resta con la «propria» cultura, rappresentare le zone marginali significa anche prender coscienza di come ogni identità sia un flusso continuo in perenne costruzione che non potrebbe esistere senza un rimescolamento e un passaggio continuo con ciò che ci è esterno e marginale.

Solo se compresa in questa luce la «riscoperta» e la difesa delle minoranze ha un senso, non si tratta di mummificare una cultura nei musei, per quanto essi siano necessari per un certo verso, ma di renderla attiva, mutandola, nel contemporaneo. Ecco allora che anche «solo» delle fotografie dedicate agli Ainu possono diventare un piccolo ma preziosissimo modo per adottare una diversa prospettiva sul presente e farci capire come ogni cultura sia in fondo e prima di tutto una inter-cultura, il luogo cioè di un’infinita varietà di passaggi ed influenze reciproche.

matteo.boscarol@gmail.com