Il cinque febbraio scorso nella solennità grigia e incravattata dello state of the union di Trump, ha fatto irruzione un mare di bianco: quello dei vestiti che le deputate democratiche hanno scelto di indossare per dare forma anche cromatica alla loro opposizione al presidente reazionario, non solo maschio ma militantemente maschilista. Sin dalle mastodontiche women’s march, le donne hanno guidato l’opposizione all’impeto razzista, xenofobo e misogino del trumpismo. L’opposizione si è trasformata in impegno politico che si è tradotto, nelle parlamentari di mezzo termine, nel maggior numero di donne elette al parlamento nella storia d’America. Le 121 rappresentanti in Camera e Senato (83% sono democratiche di cui 34 esordienti) sono un record ed esprimono altri importanti primati: le prime rappresentanti di tribù indiane: Sharice Davids del Kansas e Deb Haaland (Minnesota). Le prime musulmane: Ilhan Omar (di origini somale anche lei del Minnesota) e Rahida Tlaib (palestinese del Michigan). Abby Finkenauer e Alexandria Ocasio Cortez entrambe elette a 29 anni sono le più giovani rappresentanti di sempre ad entrare in parlamento ed al dato anagrafico sommano la spinta per un ricambio generazionale ed un forte impeto progressista all’interno di un partito democratico la cui vecchia guardia è in parte corresponsabile dell’involuzione trumpista.

Ocasio Cortez, che si dichiara apertamente socialista, in particolare ha galvanizzato l’entusiasmo dei progressisti e attirato il fuoco incrociato dei conservatori. I commentator trumpisti della Fox l’hanno presto eletta simbolo della “sinistra radicale” concentrando su di lei attacchi con la violenza che caratterizza di questi tempi quelli contro le donne che osano uscire del ruolo assegnato. La neodeputata è stata tacciata di anti americanismo e alto tradimento, calunniata e derisa da troll repubblicani che sui social hanno vomitato fiumi di fiele e minacce. Nel giro di pochi mesi AOC – come viene chiamata spesso – è diventata simbolo di un rinnovamento necessario e possibile per uscire dall’attuale deriva retrograda, suprematista e patriarcale.

L’inizio di quella che è una delle più rimarchevoli parabole della recente storia politica americana è documentato ora in Knock Down The House, un documentario presentato il mese scorso Sundance. Il film diretto da Rachel Lears segue in realtà le campagne elettorali di quattro candidate “ribelli” che l’anno scorso hanno deciso di sfidare i candidati istituzionali del partito democratico nelle primarie parlamentari. Le candidature sono state coadiuvate da due political action committee vicini alla campagna di Bernie Sanders – Justice Democrats e Brand New Congress – con lo scopo di riprendere il controllo del congresso dai repubblicani e imporre una svolta progressista al partito democratico.

Fra le molte che avrebbero contribuito di li a un anno e mezzo alla effettiva riconquista democratica della camera, Lears sceglie quattro donne le cui candidature sembrano davvero avere poche possibilità di scalzare avversari ben più ferrati e meglio finanziati di loro. Nel West Virginia la sua cinepresa segue Paula Jean Swearengin, figlia di un minatore di carbone che guida la lotta contro le operazioni di fracking che minacciano la salute della sua comunità. A Las Vegas incontriamo Amy Vilela madre e nonna single che si batte per una riforma sanitaria (sua figlia è morta a 21 anni dopo che un ospedale ne aveva rifiutato il ricovero perché sprovvista di assicurazione privata). Cory Bush è residente del distretto a maggioranza afro americana vicino Saint Louis dove l’omicidio di Michael Brown ed endemica discriminazione razziale avevano scatenato le rivolte di Ferguson. La quarta protagonista è Ocasio Cortez, ventinovenne ispanica che sbarca il lunario come barista e decide di sfidare la macchina politica apparentemente inscalfibile di Joe Crowley, rappresentante di lungo corso del quattordicesimo distretto nonché esponente di spicco del gruppo dirigente nazionale del partito democratico.

Sono tutte outsider di cui la cinepresa registra il prosaico lavoro di organizzazione politica, i quartieri attraversati porta a porta per distribuire volantini e stringere la mano a potenziali elettori, le sedute a tarda sera con strateghi consiglieri (volontari, compresi amici conoscenti o a volte famigliari) attorno a un tavolo da cucina. Incontri e piccoli comizi si alternano a momenti di candore, quelli delle defaillances e dei dubbi espressi in confidenza a compagni davanti al televisore o con in mano lo spazzolino da denti. Un’intimità assai inconsueta nel mondo della comunicazione politica, sempre pilotata e attentamente calibrata.

Giovane e sicura di se e, allo stesso tempo, a tratti sfiduciata quando confessa le proprie incertezze al fidanzato nel minuscolo appartamento del Bronx, Ocasio Cortez trasmette un carisma naturale che la rende protagonista del film come lo è diventata nella sfera politica., La seguiamo nei volantinaggi ai pendolari davanti alla stazione del subway, mentre parla con gli avventori di un mercato rionale, stringe la mano a madri musulmane, commercianti yemeniti e caraibici – gli abitanti del mosaico etnico e culturale del Queens che sono il volto dell’America cancellata da Trump. È un manuale di politica di base oltre che una mappa di attivismo locale che fotografa l’ideale del politico-cittadino, di populismo virtuoso, così insito nell’idea americana, da Jefferson a Frank Capra.

Attraverso cene e riunioni famigliari, Knocking Down The House approfondisce le radici di AOC in una famiglia nyuorican e working class, ferreamente leale e solidale. Gli album di famiglia ed i home movies rivelano una giovane donna dalla determinazione fuori dal comune, posseduta sin da bambina di una intelligenza empatica e di un senso istintivo di giustizia formati in gran parte dal rapporto con un padre profondamente etico.

Le narrative parallele del film convergono infine verso il culmine da thriller, quando dopo gli ultimi sondaggi, il verdetto passa alle urne, e il suspense è quasi intollerabile. Alla fine non tutte le candidate riusciranno a prevalere come AOC ma come dice lei stessa: “perché una ce la possa fare, cento devono tentare.” È chiaro che queste quattro donne come le centinaia che si sono candidate ai mid-term, si considerano solo l’avanguardia di un movimento più ampio e più profondo, il cui obbiettivo è sconfiggere Trump e l’anno prossimo riprendersi il paese dalla minoranza populista, e in senso più lato dal sistema politico bipartisan, che lo tiene in ostaggio.

Sono la personificazione di un rinnovamento politico di genere e generazionale e, come hanno dimostrato quei vestiti bianchi nell’aula della Camera, sono decise a lasciare l’impronta su una politica arenata, intrappolata nell’odio e nella paura e negli slogan del risentimento e, anche a sinistra, in abitudini calcificate, tabù, antiche consuetudini “culturali” e calcoli finanziari. In questa stasi AOC e le altre stanno portando una ventata che oseremmo definire rivoluzionaria a partire dal Green New Deal, il colossale progetto di incentivi alle infrastrutture in chiave ambientalista che sarà piattaforma di molti candidati alle prossime presidenziali (sono già candidate quattro donne), emblema di rinnovamento e allo stesso tempo di un ritorno alle origini rooseveltiane per la sinistra americana