A bordo di una nave, si annullano i codici della terraferma, vecchi legami si allentano e se ne annodano di nuovi, ranghi e priorità si capovolgono, il passato e il presente trovano nuova figura. Uno stato d’eccezione emotivo espone i passeggeri a sperimentare nuove disponibilità verso l’altro o, a volte, una chiusura ruvida e assorta. Qualcosa del genere accade quando, nell’estate del 1934, il transatlantico Olympic si distacca da terra e lascia New York alla volta dell’Europa, diventando subito «un piccolo pianeta a sé, con una propria popolazione, una propria vita e persino una propria invisibile ritualità».

A bordo di questa nave, Yash, un ebreo di trentasette anni, fa a ritroso il viaggio compiuto vent’anni prima, quando dalla nativa Lublino era emigrato nel nuovo mondo, la goldene medine – terra d’oro – che tra i secoli diciannovesimo e ventesimo aveva tratto a sé milioni di ebrei dall’Europa orientale, tutti di lingua yiddish. Anche questo ebreo orientale trapiantato in America come giornalista ha lasciato alle spalle, nel 1914, la vita separata dello shtetl, immersa nella legge rabbinica, scandita dal calendario liturgico, modulata sui ritmi dello yiddish, dove si intrecciano i mille traffici e i tanti mestieri ebraici, dove sfilano palandrane nere, cappelli a tesa larga, riccioli sulle tempie, macellai rituali e cantori, maestri di cheder e servitori di sinagoga. Lentamente, vi si è insinuato un nuovo pensiero e la fedeltà alla tradizione, contesa tra talmudismo e chassidismo, si è contrapposta all’idea sionista, alla fede socialista e alla sua versione ebraica del Bund.

Dopo vent’anni di vita oltre l’oceano, le gravi condizioni di salute della madre costringono Yash a fare ritorno in Europa. Il viaggio e l’approdo in patria del protagonista sono la materia dei due romanzi dello scrittore yiddish Jacob Glatstein, Ven Yash iz geforn (Quando Yash partì) e Ven Yash iz gekumen (Quando Yash arrivò), racchiusi dall’editrice Giuntina nell’unico volume Il viaggio di Yash (pp. 470, euro  20,00) che, mantenendone la duplice scansione, ci offre, in una raffinata traduzione a più mani, per la cura di Marisa Ines Romano, una delle opere più significative nella letteratura yiddish del Novecento: un testo pieno di umanità e di storia, filtrate attraverso il prisma dell’interiorità.

La vicenda di Jacob Glatstein è sovrapponibile per intero a quella del protagonista, che ne è la evidente maschera letteraria, e i due romanzi, esempio tra i più chiari di finzione autobiografica, sono la risultanza del percorso di Glatstein da New York City a Lublino, verso la madre morente. Ma la storia di Yash non è un diario di bordo né, una volta toccata terra, si lascia inquadrare nella più generica categoria del diario di viaggio.

Protagonista è il mondo interiore dei personaggi, le sue oscillazioni registrate sulla pagina come su un sismografo, in linea con il dettame letterario dell’introspettivismo yiddish americano, di cui Glatstein – insieme agli autori radunati intorno alla rivista In Zikh – è una delle voci più significative.
In accordo con il programma poetico del movimento, anche le pagine del Viaggio di Yash, riportano pochi fatti, di rado una chiara linea della storia, piuttosto una scrittura nervosa, a tratti guizzante, costruita su spaccati di quotidianità che sono bagliori, più che narrazione coesa: espressioni di un panorama interiore spesso contraddittorio, dove si avvicendano luci, colori, figure, in una scrittura che tiene il passo con le più alte espressioni del modernismo europeo.

Al ritmo di queste prese fuggevoli sulla realtà, il primo romanzo si consuma, quasi per intero, nella descrizione dei giorni sulla nave e dell’assortimento di passeggeri che il protagonista incontra, alcuni di ritorno per sempre in Europa, altri in vacanza, ma tutti partecipi dello stesso offuscamento identitario, nello spazio indistinto compreso tra cielo e mare che favorisce la comunicazione di emozioni rapprese sulla terraferma, e l’affiorare dei ricordi. Anche il protagonista è riportato dalla nave agli anni d’infanzia, «i due decenni in America si sono improvvisamente sbriciolati tra le dita (…) Un diluvio di frammenti di vita mi piove addosso», a ricreare un quadro dove le visite in sinagoga con il nonno si alternano alle schegge della rivoluzione antizarista del 1905.

Dai frammenti di vita di ogni passeggero – un ebreo olandese sprezzante delle proprie origini, un maestro danese, un’insegnante di francese del Wisconsin, un diplomatico di Haiti, un pianista gigolò, un ingegnere apologeta del socialismo, un ebreo della Bessarabia trapiantato a Bogotà – emerge un tessuto composito dove, filo a filo, si riconoscono correnti di pensiero, strati sociali, nazionalità, desideri e ambizioni personali sullo sfondo degli anni trenta.
Gli ultimi capitoli del primo romanzo percorrono in treno l’Europa, dove si allunga, sempre più minacciosa, l’ombra dello hitlerismo. Mentre i non ebrei si instradano verso le località turistiche di Francia, Italia, Spagna e Svizzera, gli ebrei viaggiano verso le proprie case d’origine in Polonia, Romania, Lituania e nella Russia sovietica.

Dopo l’incontro con i genitori e la morte della madre – di cui mai si parla espressamente, in deroga al principio di realtà che aveva mosso il viaggio – il secondo romanzo raccoglie e restituisce le impressioni del protagonista durante la permanenza in Polonia e le reazioni degli ebrei rimasti in patria nei confronti dell’«americano». Nell’albergo sospeso tra realtà e sogno, che è teatro della vicenda e ospita ebrei malati nel corpo e nello spirito, Glatstein crea, di proposito, un parallelo ebraico del Berghof nella Montagna magica di Thomas Mann, e nello storico Steinmann, il più vigoroso e magnetico tra gli ospiti di questo sanatorio ebraico, una replica ironica dell’umanista Settembrini o del gesuita Naphta – qui non fa differenza quale dei due – dove però si inframmezzano i tratti e la saggezza di vita del rebbe chassidico, forse proprio il famoso Veggente di Lublino.

L’atmosfera del secondo romanzo è declinante e autunnale. Anche se ballano walzer all’aria aperta, in una serata organizzata dal proprietario dell’albergo, i malinconici ospiti di questa struttura sanno che l’inverno, anche della loro vita, è alle porte, in un gioioso crepuscolo che lascia intravvedere sottopelle l’avvicinarsi dei tempi peggiori. Nella Polonia tra le due guerre, persino i rebbe chassidici sono taciturni, pieni di amarezza e di preoccupazione per l’ostilità che circonda gli ebrei. Qui, tutta la miseria e la desolazione dell’ebraismo sfila davanti agli occhi del protagonista: un fiume di postulanti che gli rivolgono suppliche, che vedono in lui l’araldo di un paradiso mitico, il pontiere verso un’America ormai blindata, il messaggero della liberazione messianica.
Yash è impotente e confida in un miracolo che, solo, potrebbe salvare le masse ebraiche in Polonia. Ma la speranza si polverizza all’acuta consapevolezza che «quella giornata (…) e persino la morte di mia madre si fossero fuse nella china pendente della mia vita, che declinava al ritmo dell’intera vita ebraica, forse addirittura al crepuscolo del mondo intero».

Una consapevolezza affine a quel pensiero nato sul treno per Lublino, in coda al primo romanzo, che con amarezza constatava lo smarrimento delle proprie origini, ma che – con lo sguardo di oggi, conscio di quanto sarebbe avvenuto di lì a poco – non può non evocare un’altra, più tragica, perdita: «Osservo i visi depressi e penso che tra venticinque anni questo tipo di viaggiatori sarà del tutto scomparso. Stanno viaggiando gli ultimi esemplari di quelli che vanno a visitare le tombe degli avi, sono quasi del tutto estinti i padri e i nonni e anche i figli poco per volta cominciano a morire. Quando i figli dei loro figli andranno nella Russia sovietica, in Polonia, in Lituania, in Romania, sarà per puro piacere. Tra un quarto di secolo mancherà qualcosa su quei vagoni».