«Avevo bisogno di tornare alle origini, di vedere la città in cui sono nato, respirarne l’odore. Dovevo tornare alla mia memoria africana, interrogarmi sulle mie radici». I personaggi di Alain Mabanckou, così come le pagine dei suoi romanzi, non hanno mai davvero lasciato l’Africa. Ma lui, lo scrittore congolese, autore di libri divenuti bestseller oltralpe, premiato dall’Académie Française e che ha traversato l’oceano per insegnare la letteratura francofona, e africana, all’Ucla di Los Angeles, nella città di Pointe-Noire dove è nato, nel 1966, e cresciuto, non metteva più piede da ventitré anni. Non era tornato, incapace di assumere il dolore per quelle perdite, neppure per i funerali della madre e del padre adottivo. L’occasione, per far visita ai propri ricordi, incontrare parenti e amici, e misurare con l’abituale sguardo lucido la situazione dell’Africa, è arrivata nel 2012 quando Mabanckou è stato invitato a tenere una serie di conferenze all’Institut Français della città costiera del Congo.
Per un mese ha annotato le sensazioni che quel ritorno a casa facevano sorgere in lui. Il risultato è Le luci di Pointe-Noire (pp. 246, euro 17), pubblicato come i precedenti Domani avrò vent’anni, Black Bazar e Zitto e muori dall’editore 66thand2nd, un libro straordinario che ha il respiro del romanzo, ma il timbro del reportage, e che illustra alcune fonti della sua ispirazione. Dall’amore per il cinema – sono titoli di film a scandire i capitoli – alla scoperta per la letteratura, dal regno spensierato dell’infanzia alle tante ferite inferte al paese: dall’eredità coloniale alla guerra civile, fino al doloroso capitolo della prostituzione.
Un libro a un tempo delicato e drammatico che, per quanto arrivi a coronamento di una carriera ormai affermata, Mabanckou considera come una sorta di debutto: «Se non avete letto ancora nessuno dai miei romanzi, cominciate da questo. Vi troverete la chiave per capire tutti gli altri». Abbiamo incontrato lo scrittore a Roma, quando era ospite al Festival Letterature.

«Le luci di Pointe-Noire» descrive più d’un ritorno, quello reale del viaggio e quello emotivo che fa i conti con la memoria e i ricordi d’infanzia. In mezzo, lo sguardo interrogativo dei congolesi che la fanno sentire «straniero». È questo che attende chi ritorna in Africa?

In qualche modo, è questa la condizione che si trova a vivere l’immigrato che ritorna nel proprio paese dopo più di vent’anni. Chi vi conosce e vi vuole bene mostra la sua gioia nel rivedervi, ma allo stesso tempo non può mascherare il fatto che non appartenete più alla stessa comunità. E non si tratta solo della distanza costruita dal tempo, c’è anche altro. In Africa, ma credo ovunque nel mondo, quando un immigrato ritorna nel suo paese d’origine, tutti si aspettano che abbia fatto fortuna, che sia diventato ricco e che possieda molto denaro. Pensano che possa aiutarli a risolvere tutti i loro problemi e non smettono di chiedergli soldi. Perciò, già poche ore dopo che mi trovavo in Congo, ho percepito questa strana sensazione: mi sono sentito un turista. A casa mia.

Quest’idea dell’immigrato che ha fatto fortuna nasconde molti paradossi. Come quei «negri parigini», come li chiama lei, che in Africa ostentano uno stile di vita all’occidentale, malgrado in Europa vivano di espedienti. Impossibile sottrarsi a questo cliché?

È molto difficile. Diciamo però che ci sono due tipi di immigrati. C’è chi, dopo aver vissuto a lungo all’estero si mostra distante, come se volesse indicare ai propri connazionali di essere entrato a far parte di una nuova civiltà. Quale che sia la loro vera esperienza in Europa, queste persone continuano a «vendere il loro sogno». C’è poi chi, come me, cerca invece di dimostrare che si può rimanere se stessi anche lontano da casa. Il problema è che la maggior parte degli africani rifiuta anche solo la possibilità che voi siate rimasto un personaggio «ordinario». Tutto ciò che vi riguarda deve essere eccezionale. Da chi torna ci si aspetta che marchi la differenza con chi è rimasto: non deve mangiare il cibo locale, non può sedersi per terra e sta solo dove c’è l’aria condizionata. Perciò in pochi hanno apprezzato che io mi comportassi come quando ero partito.

Temevano che questo suo atteggiamento equivalesse a infrangere il sogno che accompagna per molti versi l’emigrazione?

Molti africani hanno paura che il mito del successo da cercare in Occidente si sgonfi. Per loro quel viaggio rappresenta una sorta di metamorfosi, la promessa di un cambiamento non solo sociale, ma anche individuale. Dal canto mio, ho cercato di fare il contrario, ho spiegato a tutti che questo mito non esiste, che bisogna smetterla di sognare l’Europa, visto che nel Vecchio continente c’è tanta gente che soffre, c’è la disoccupazione, la xenofobia, il razzismo, c’è il Front National in Francia e altri partiti simili quasi in ogni paese. E, in questa situazione, non è che quando arriva un nuovo immigrato dall’Africa le persone gli battano le mani.

E a cosa dovrebbe guardare chi ha incontrato in Congo?

Alla propria dignità africana. Il mio messaggio è chiaro: potete essere felici in Africa, smetterla di vivere protesi verso l’Occidente. Per farlo c’è però bisogno che le persone tornino a darsi una mano l’una con l’altra, ritrovino l’orgoglio della loro Storia, la semplicità e la generosità. Gli africani non devono farsi intrappolare dal potere del denaro e dalla logica del profitto che governa su tutto. Lo «sviluppo» non arriverà perché avremo costruito molti grattacieli o aeroporti. È il cambio di mentalità ciò che conta davvero. Non nascondo i gravi problemi economici che vivono gli africani, sia per la lunga eredità del colonialismo che per l’effetto di decenni di governi autoritari, ma credo che sia da una nuova consapevolezza di sé che si deve ripartire.

Le aspettative nutrite dalla sua generazione e la realtà odierna sembrano però molto distanti. Nessuno ricorda i cinema o le «librerie da marciapiede» della sua infanzia. Fantasia e cultura non hanno più spazio?

In effetti, tornando nella mia città, mi ha colpito molto il fatto che i miei concittadini passassero davanti agli ex cinema, o ai simboli della cultura popolare che avevamo a disposizione noi, senza mostrare di conoscerli. Sono stato io, l’immigrato che tornava a casa, a raccontare loro di queste cose: di quando si aspettava per ore per vedere un film d’avventura o di Bruce Lee, uno spaghetti-western o un musical indiano. O di quando, accanto ai fumetti francesi, potevamo comprare i classici della letteratura europea nelle librerie improvvisate in mezzo alla strada. Oggi, molte di quelle sale sono diventate chiese evangeliche o magazzini e le librerie sono sparite. L’orizzonte sembra essersi fatto più piccolo e stretto: a Pointe-Noire contano solo i soldi. Io sono diventato scrittore inseguendo le fantasie dell’infanzia, mentre i ragazzi di oggi non sembrano avere le stesse chance. Però, non perdo la speranza.