In relazione all’esperienza della diaspora afroamericana, Saidiya Hartman, professoressa di studi afroamericani alla Columbia University di New York, scrive: «potremmo pure aver dimenticato il nostro paese, ma non abbiamo dimenticato la nostra spoliazione. È per questo che non ci stanchiamo mai di sognare un posto da chiamare casa, un posto migliore di questo, ovunque esso sia». «I ghetti non sono fatti per viverci – conclude – noi lì ci stiamo, ma non ci abitiamo».

QUESTO SENSO generalizzato di sradicamento radicale spinge ogni anno diecimila afroamericani a viaggiare verso il Ghana nel tentativo di riallacciare i legami ancestrali recisi dalla tratta atlantica degli schiavi. Seguendo l’esempio dell’intellettuale panafricanista W.E.B. Du Bois e di tutti coloro che, come la musicista Nina Simone e la scrittrice Maya Angelou, si volsero all’Africa alla ricerca di un’identità al di là del trauma dalla cancellazione e dal dislocamento, anche Hartman attraversa l’Atlantico nel senso contrario rispetto ai suoi antenati. Lo fa da libera studiosa della schiavitù, ma anche da attivista e da intellettuale nera radicale, raccontando la sua esperienza in Perdi la madre (pp. 332, euro 18,00), un ibrido tra saggio e autobiografia uscito inizialmente nel 2007 e ora disponibile in Italia nella bella traduzione di Valeria Gennari per Tamu, editore indipendente votato al pensiero postcoloniale, femminista ed ecologista che, tra gli altri, ha recentemente portato nel nostro paese anche un saggio fondamentale nel campo degli studi afroamericani contemporanei come Undercommons di Fred Moten e Stefano Harney.

Torna in Ghana, Hartman, ma non trova quello che si aspetta. Spera nell’istaurarsi spontaneo di una fratellanza con la popolazione locale per via della storia comune, ma gli africani la chiamano «obruni», straniera, e il loro atteggiamento nei confronti di quelli che percepiscono come ricchi americani in vacanza va dalla deferenza artificiosa all’aperto disprezzo.

SI RECA AL CASTELLO di Elmina sulla Costa d’oro (punto di snodo della tratta atlantica degli schiavi dalla quale, al tempo del dominio olandese, si stima passassero circa trentamila schiavi all’anno) e si scopre delusa nel vedere come, nonostante la storia di orrore che trasuda da ogni pietra, la roccaforte non sia altro che una meta turistica come tutte le altre, compresa di venditori ambulanti di bevande e noccioline. Pochi tra gli abitanti del luogo sembrano davvero interessati alle violenze che per secoli sono state perpetrate all’interno delle mura di Elmina: per i ghanesi la schiavitù è un fatto del passato, qualcosa da lasciarsi alle spalle e di cui è meglio non parlare troppo.

TRAMITE UNA TECNICA che definisce Critical Fabulation, frutto dell’unione di un approccio mediato sia dalla prassi critica che dalla narrativa, Hartman racconta del suo anno di permanenza in Ghana unendo la ricerca storica agli aneddoti della propria vita. Il risultato è un lavoro in cui i «giorni bui» della schiavitù e il presente vengono posti in dialogo serrato nel tentativo di ricostruire le genealogie distrutte di tutti coloro che, trasformati in merci, si sono trasformati in vittime accessorie sulle quali il capitalismo ha costruito la propria ascesa spietata. «Volevo disperatamente reclamare i morti», scrive Hartman, mettendo però anche in chiaro come le proprie aspirazioni da studiosa e da figlia della diaspora siano destinate a restare in gran parte frustrate. Cerca di redimere, o perlomeno di spiegare quella che chiama «vita postuma della schiavitù», ovvero gli effetti politici, sociali e psicologici che ancora oggi s’impongono sulle vite degli afrodiscendenti nordamericani, ma quello che la aspetta sono solo altre domande e un perenne senso di dolorosa incompletezza.

Il ritorno resta impossibile, la madre perduta (che è la patria mitica, ma anche il riscatto dalla condizione ontologica di orfano che secondo Frederick Douglass caratterizza le persone ridotte in schiavitù e i loro discendenti) non può essere ritrovata. Secondo la studiosa, se il fantasma della schiavitù perseguita ancora il presente degli afroamericani è perché essi sono ancora alla ricerca di un’uscita dalla prigione, e l’unico modo per onorare il debito con i morti è quello di ricostruire radicalmente la società occidentale, in cui le persone nere sono ancora strutturalmente escluse dal paradigma umano, vite definite dalle violenze perpetrate su corpi considerati alla stregua di oggetti da accumulare e vendere.

HARTMAN VIENE generalmente (e suo malgrado) ascritta al gruppo dei pensatori definiti «afropessimisti», ovvero coloro che costruiscono la propria riflessione teorica sul presupposto che la schiavitù abbia segnato in maniera drammatica e indelebile la condizione esistenziale dei discendenti della diaspora. E in effetti Perdi la madre è una riflessione intima ed erudita tutta iscritta nel segno della mancanza, del lutto e della malinconia. Africa e Stati Uniti sono ormai irrimediabilmente separate da storie che, pur affondando le radici nello stesso trauma collettivo, si sono evolute in direzioni separate e ampiamente inconciliabili. Incontrarsi nuovamente per costituire un unico fronte solidale pare impossibile. Eppure, in tutto questo buio, Hartman riesce perlomeno a scorgere una possibilità di redenzione.

Volgendosi alla resistenza nei confronti di quella ferita insanabile che accomuna i neri di entrambe le sponde dell’Atlantico, alle contro-storie di resistenza e ribellione nei confronti dell’Occidente schiavista, Hartman decide di raccoglierne l’eredità come strumento nella lotta quotidiana per la libertà. La sua è una «tribù perduta» fatta di fuggitivi, migranti, diseredati e sognatori, gente senza madre e senza passato che però può, e deve, proiettarsi nel futuro. Ascoltando il canto di un gruppo di ragazze al termine del suo viaggio, un percorso geografico che è soprattutto una discesa nel profondo della propria anima e delle proprie convinzioni, la scrittrice capisce che l’eredità dei fuggitivi, degli schiavi ribelli e di tutti coloro che erano «determinati a fermare il tempo e a istituire un nuovo ordine, anche a costo della vita» era in definitiva «il sogno di un altrove, con tutte le sue promesse e i suoi pericoli, dove i senza-stato potessero, finalmente, prosperare».

ABBANDONARSI AL CANTO, allora, vuol dire strappare il futuro dalle fauci del passato per reclamare gli spiriti dei morti disseminati sui due continenti e nell’oceano che li separa. Dare voce e sostanza a tutte le persone ridotte in schiavitù, torturate, trucidate, gettate fuori bordo e i cui cadaveri, in un perverso e grottesco cortocircuito di morte e mercato, erano addirittura sfruttati come esca per le cipreidi: molluschi le cui conchiglie venivano poi utilizzate come valuta per acquistare merce umana.

È la volontà magari utopistica ma niente affatto ingenua di (ri)costruire un mondo che sia anche casa, la possibilità creativa di darsi un nome nuovo e aprire una strada comune che non sia tracciata solamente dal trauma indicibile della schiavitù, ma che parta piuttosto dagli sforzi rivoluzionari che a questa si sono contrapposti. È la pratica quotidiana e costante della libertà che, conclude Hartman, si esprime anche nell’abbandonare le vecchie identità, segnate dalla violenza e dal giogo della razza e del capitale, per reinventarne di nuove e rivoluzionarie.