«Quando si comincia a vendere la terra è la fine di una famiglia. Dalla terra siamo venuti, e alla terra dobbiamo tornare…Se conserverete la terra vivrete…Nessuno potrà mai portarvela via…»

Così il vecchio Wang Lung ammoniva i figli nelle battute conclusive del capolavoro «La buona terra», affresco sulla Cina rurale di inizio Novecento che valse a Pearl S. Buck il Premio Pulitzer nel 1931. La Buck, nata e cresciuta nel Celeste Impero, si è spenta nel ’73 sull’altra sponda del Pacifico, perdendo per un soffio l’avvio delle riforme che avrebbero cambiato radicalmente il volto del Dragone.

Per il contadino cinese (nongmin) la terra rappresentava tutto: il benessere, l’unione con la famiglia, la tradizione, le virtù delle generazioni passate e le speranze di quelle future. Nel 1949, anno della fondazione della Repubblica popolare, l’80% dei membri del Partito era composto da contadini.

Contemporaneamente alle riforme economiche fine anni ’70, si ebbe un processo di proletarizzazione di massa innescato dalla migrazione forzata verso i centri urbani e dallo smantellamento del sistema delle comuni popolari, fino a quel momento autosufficienti nello sviluppo delle attività agricole, industriali e terziarie degli abitanti.

Dall’inizio degli anni ’80, milioni di lavoratori migranti si sono spostati dalle zone agricole verso le aree urbane in cerca di lavoro. Dove prima si estendeva la campagna sono state costruite le innumerevoli industrie che hanno valso alla Cina il titolo di «fabbrica del mondo». Il contadino di ieri è, in molti casi, l’operaio di oggi.

Nel 2011, mentre la popolazione urbana cinese superava per la prima volta quella rurale, il numero della manodopera migrante ha raggiunto le 250 milioni di unità. Di queste -secondo i dati dell’Istituto Nazionale di Statistica- soltanto il 10,5% ha ricevuto una formazione di tipo agricolo; il 26, 2% non ha conoscenza approfondita del settore e il 68,8% non ha seguito alcun genere di training professionale. E più giovane è il lavoratore, inferiore è la sua dimestichezza con zappa e aratro. «Questo cambiamento sociale è di fondamentale importanza perché la stessa infrastruttura agricola viene così distrutta. L’anello che collega l’uomo alla terra ereditato dagli antenati viene rotto» commenta l’agenzia di ricerca del Dragone.

A distanza di trent’anni, Pechino punta nuovamente sull’urbanizzazione. Allarmato dalla frenata dell’economia nazionale, lo scorso anno il governo cinese ha annunciato un piano colossale che, nella prossima decade, interesserà lo spostamento di 250 milioni di persone verso le città di seconda e terza fascia. Obiettivo: creare una nuova classe di consumatori in grado di alimentare la domanda interna, sopperendo al calo dell’export.

Come fatto intendere più volte da fonti ufficiali, stavolta si tratterebbe di un’urbanizzazione «qualitativa» più che «quantitativa», che coniugata alla riforma dello hukou (il sistema di residenza che vincola i diritti dei cittadini al luogo d’origine) dovrebbe risolvere «i problemi di alloggio, istruzione, assistenza sanitaria e pensioni dei lavoratori rurali, concedendo loro lo stesso trattamento degli abitanti delle città». Non solo. Nei piani della leadership, la costruzione delle infrastrutture e la gestione delle varie attività relative all’urbanizzazione (vale a dire, la conduzione di scuole, ospedali, negozi…) darà un’occupazione ai cittadini in arrivo.

Secondo le proiezioni di Pechino, nel 2014 verranno creati altri 10 milioni di posti di lavoro; una misura con la quale la leadership spera di edulcorare gli animi dopo un’annata conclusasi con un tasso di disoccupazione del 4%, ma che, se si include il numero dei «lavoratori scoraggiati», ovvero di quanti hanno smesso di cercare un’impiego date le congiunture economiche avverse, potrebbe aggirarsi attorno al 9%.

Con 6,99 milioni di nuovi laureati, il 2013 si è rivelato un anno particolarmente duro per quanti si sono affacciati sul mercato del lavoro. Ma non per Chen e Du, una coppia di ventenni che -sfidando il «sogno urbano» del governo- appena conclusa l’università, lo scorso giugno, ha preso in affitto 1,5 ettari di terra coltivabile e ha avviato un’azienda di prodotti agricoli biologici.

Con un investimento iniziale di 100mila yuan (poco più di 12mila euro) è possibile arrivare ad incassare un milione di yuan (122mila euro) alla fine del primo anno, racconta Chen sul forum d’attualità Club.kdnet.net. Il sistema è ancora poco noto, ma il ragazzo assicura che sono sufficienti sei mesi per padroneggiare le tecniche di coltivazione biologica australiana e fare un bel po’ di soldi attraverso vari canali come il network marketing.

Ma non è stata solo l’allettante prospettiva economica a spingere la coppia a rivoluzionare la propria esistenza. «Se tutti i cinesi nati negli anni ’80 e ’90 abbandonassero la professione agricola, in futuro chi darebbe da mangiare alle persone?»

L’osservazione risulta un po’ naive, ma il problema è concreto e ai piani alti sembrano saperlo bene. Basta dare un’occhiata al XII Piano Quinquennale (2011-2015) per notare i massicci investimenti destinati da Pechino alla robotica industriale e al settore delle macchine agricole. Quest’ultimo -secondo le stima ufficiali- crescerà dal 52% del 2012 al 60% del 2015, per poi lievitare dal 70% del 2020 all’82% del 2030. «L’aumento dei prezzi dei prodotti, del consumo di cibo, nonché del costo del lavoro, forniscono la principale spiegazione ai sussidi governativi nel comparto» spiega Jay Tang, analista con esperienza nel mercato dell’automazione.

Una prospettiva che non sembra comunque aver scoraggiato l’esercito di giovani adulti che, stufi di boccheggiare nella cappa di smog delle caotiche megalopoli cinesi, lasciano gli ormeggi per dirigersi in campagna. Chissà che l’agricoltura non offra maggiori chance rispetto ad un posto da colletto bianco, ora che proprio il settore impiegatizio risulta quello maggiormente colpito dalla crescente disoccupazione e i cui stipendi stanno registrando una crescita più lenta rispetto a quelli percepiti dalle tute blu.

Per molti viene ancora visto come un salto nel buio, ma in realtà la vita agreste, negli ultimi anni, sembra aver strappato alle città diversi talenti. Dong Liming, per esempio, dopo un dottorato in matematica è stata per un periodo alla direzione di ChinaAMC, una delle più importanti società cinesi di gestione del risparmio. Poi nel 2011 si è licenziata, ha lasciato Shanghai ed è tornata nello Shandong, sua provincia d’origine, per coltivare vegetali.

Zhou Yueya, invece, ha lavorato per nove anni nell’information technology, ma detestava i ritmi frenetici e i continui viaggi di lavoro. Così nel 2003 ha aperto una propria azienda agricola. All’inizio non è stato facile, racconta allo Shanghai Morning Post: oltre alla diffidenza di chi dubitava del pollice verde di un ex colletto bianco, si sono aggiunte le prime perdite economiche. Alla fine del 2004 la sua società era andata in rosso di 1,5 milioni di yuan (grossomodo 182mila yuan), una somma che comprendeva tutti i suoi risparmi più 500mila yuan (61mila euro) presi in prestito. Ma già a partire dal secondo anno l’azienda ha cominciato a fatturare in media oltre 1 milione di yuan al mese, e il suo vecchio stipendio da 250mila yuan (30mila euro) l’anno ora le sembra una miseria.

Nella piramide sociale il contadino si è sempre posto sull’ultimo gradino, e tutt’oggi viene spesso etichettato come rude e ignorante. Una sorta di cittadino di classe B, agli occhi dei beneducati cinesi urbanizzati. Eppure la scelta controtendenza di Chen, Du, Dong e Zhou si basa su una semplice constatazione: in Cina ci sono oltre 1,3 miliardi di bocche da sfamare. Bocche sempre più esigenti.

Guo Keijiang aveva raggiunto il punteggio più alto di tutta la provincia al gaokao (la maturità cinese), e si avviava verso una promettente carriera da banchiere presso la Industrial Bank di Pechino. Poi ha scelto di tornare al villaggio natio e avviare una eco-farm, tra le lacrime della madre che gli ricordava i sacrifici fatti per riuscire ad offrirgli un futuro nella capitale: «Ho lavorato i campi una vita per vedere mio figlio in città e lui improvvisamente mi dice che vuole tornare a casa per fare l’agricoltore. Ovviamente non sono d’accordo!»

Esaltati, invece, i compaesani che hanno ringraziato Guo per aver rivelato loro un tipo di coltivazione diverso da quello praticato per anni. Oltre alla preferenza per il «ritorno alle origini», infatti, ad accomunare quasi tutti i nuovi nongmin è la componente Bio. «Voglio capire se è veramente così difficile produrre delle verdure ‘sicure’» ha spiegato Guo, il quale nella sua fattoria vieta severamente l’utilizzo di pesticidi e fertilizzanti.

Alla luce della lunga serie di scandali che ha funestato il mercato alimentare cinese, dal latte alla melamina al riso al cadmio, l’organic food comincia a riscuotere un certo successo, sopratutto nella fascia media. E’ in particolare la nascente middle class urbana -che oggi costituisce il 10% della popolazione, ma che nel giro di alcuni anni potrebbe salire al 40%- a sentire l’esigenza di accompagnare il raggiunto benessere economico ad una maggior sicurezza a tavola.

Nel Regno di Mezzo il mercato dei prodotti biologici è quadruplicato nel giro di cinque anni, registrando una rapida crescita. Stando ai numeri di Biofach, leader nel settore, oggi si aggirerebbe sui 10 miliardi di yuan (all’incirca un miliardo di euro) e, sebbene la produzione e la vendita dell’organic food cinese sia stata inizialmente pensata per l’export, ormai la distribuzione avviene sempre più spesso entro i confini nazionali.

Attualmente, in Cina, circa 2 milioni di ettari di suolo sono destinati alla coltivazioni ecologica, mentre sarebbero grossomodo 1400 le aziende agricole biologiche certificate. Cifre che valgono al Dragone il terzo posto nella classifica mondiale per terreni agricoli organici (dopo Australia e Argentina) e che rinfrancano, considerato il recente annuncio del Ministero della Protezione Ambientale cinese: 3,3 milioni di ettari di terreni, un’area pari più o meno alla superficie del Belgio, risultano ormai troppo inquinati per la coltivazione.

Ragione per la quale il Dragone, che è il primo produttore a livello globale di cotone, riso e carne di maiale, risulta anche essere il principale importatore al mondo di prodotti agricoli.

Ma, mentre il suolo viene intossicato dalle centrali elettriche a carbone e divorato dall’avanzare dei nuovi centri urbani, qualcuno ha trovato un modo per coltivare riso «incontaminato», pur vivendo in una città di 4 milioni di abitanti. Succede a Qilin, nella provincia orientale del Zhejiang. Peng Qiugen è un contadino senza terra -quella che aveva l’ha ceduta sette anni fa ad un’impresa di giardinaggio- disposto a fare qualsiasi professione in grado di migliorare lo standard di vita della sua famiglia, ma non per questo a sacrificare la propria passione per l’agricoltura.

Così Peng ha lavorato per un periodo in fabbrica, ma ha anche continuato a coltivare patate, riso, angurie e verdure di vario genere. Il tutto, comodamente, sul tetto di casa.