Mentre sui siti governativi imperversa la televendita de «la buona Scuola» (peraltro veicolata da una consultazione senza parvenza alcuna di attendibilità: il visitatore tendenzioso, se non definitivamente stordito dalla vertigine colorata del questionario, potrà registrarsi indisturbato con diversi nicknames e votare all’infinito), le milizie celesti di Confindustria squadernano l’artiglieria pesante a sostegno del progetto renziano. È stato il «vicepresidente per l’Education» di Confindustria, Ivan Lo Bello, a intervenire a Roma lo scorso 7 ottobre alla giornata organizzata dagli industriali alla Luiss per presentare il «documento di proposte per la scuola, l’università e la formazione professionale». Di fronte a un tale spiegamento di forze, fa persino arrossire il continuo richiamo del Premier – niente più che una ratifica di comodo, predicatoria e autoassolutoria – a una partecipazione dal basso alla consultazione sulla scuola.

Le «100 proposte per la crescita» confezionate da Confindustria moltiplicano in ordine di grandezza i 12 punti che con esemplare modestia Renzi considera fondanti per innovare la scuola italiana. Ma i nodi non paiono tanto differenti (e la continuità, rimarcata dallo stesso Lo Bello, è occasione di ossequio da parte della sbiadita ministra Giannini, presente all’incontro nel ruolo di gregaria): innovazione, alternanza scuola-lavoro e gli immancabili valutazione e merito.

L’analisi della situazione contiene rimasticature di dogmi ideologici neoliberisti (il mancato collegamento tra scuola e mondo del lavoro, formazione e territorio), fatuità memorabili («il 40% della disoccupazione giovanile dipende […]dal basso orientamento scolastico») e sciocchezze madornali («per puntare al miglioramento […]delle performance del nostro sistema educativo» bisogna valorizzare la «domanda delle imprese»). Si dimentica che in Italia la risposta alla bolla formativa – la contrazione del tasso occupazionale andata di pari passo con la crescita diffusa della generazione più istruita della storia – è stata sinora più precarietà e meno tutele nel lavoro, più retorica e meno borse di studio nell’istruzione. Si preferisce il richiamo al rapporto Studio ergo Lavoro, pubblicato a gennaio dalla multinazionale di management consulting McKinsey.

Sulla scorta di questi inoppugnabili dati, gli industriali si sentono chiamati a indicare soluzioni: tra queste, nell’ordine, la richiesta di autonomia didattica, organizzativa e finanziaria delle scuole e la possibilità per i dirigenti scolastici di assumere i docenti per chiamata diretta (non certo per garantire le clientele, ma per selezionare i più meritevoli, ovvio). E ancora, come già previsto dalle linee guida governative, l’abolizione delle graduatorie di anzianità e la rimodulazione delle retribuzioni degli insegnanti in base a orari, servizio, gerarchia di funzioni, conseguimento di obiettivi specifici (che i più maliziosi potranno magari intendere come docilità di addestramento al lavoro obbediente disposto dal preside-manager). Al Ministero spetterebbero solo «compiti di finanziamento» e «valutazione dei risultati»: la scuola la paga il pubblico, ma le sue modalità e finalità vengono decise da altri. Una liberalizzazione selvaggia e una atomizzazione dei programmi e dei valori formativi, che lasci spazio alle innumerevoli identità e diseguaglianze territoriali e, inevitabilmente, di censo e di ceto.

Le richieste ulteriori disegnano una scuola a misura di impresa: introduzione dell’alternanza scuola-lavoro, potenziamento dell’apprendistato, abolizione del valore legale del titolo di studio, costituzione di un poderoso Sistema Nazionale di Valutazione, consolidamento dell’Invalsi e, infine, dulcis in fundo, riduzione di un anno del curriculum scolastico (da 13 a 12). È quest’ultimo un punto ciclicamente rispolverato nel nostro Paese: ove ciò accadesse, assisteremmo al compimento del degrado che ebbe inizio con un ministro chiamato Luigi Berlinguer, reo del taglio efferato della storia antica dai programmi scolastici.

La menzognera prospettiva evocata dalla riduzione degli anni scolastici è l’anticipato accesso al mercato del lavoro, peraltro notoriamente assai ospitale: se non è più tempo di consentire alle giovani generazioni il lusso dello studio, tanto vale fornire da subito alle imprese e a un mercato del lavoro schiavista, quale quello che il capitalismo globale sta imponendo in tutta Europa, manovalanza dequalificata e sottopagata. Prova conclamata della inveterata indifferenza al contenuto degli studi e testimonianza inoppugnabile della pervicace volontà di ridurre ulteriormente le già risicatissime risorse destinate nel nostro Paese a scuola e ricerca.

Sul piano più propriamente didattico, Confindustria vola più basso possibile e mostra insofferenza per gli inutili temporeggiamenti cosmetici contenuti nel progetto renziano (ad esempio quello di dedicare un qualche spazio nei programmi scolastici a musica e arte). La strada giusta va in direzione opposta: far prevalere il saper fare sul sapere (così Attilio Oliva del Board Education dell’Ocse), ridurre le materie e puntare su stage e tirocinii, con l’aggiunta di tanto inglese e informatica. L’idea di stroncare sul nascere qualsiasi desiderio di conoscenza completa un quadro reso già insidioso dal richiamo martellante alla competitività, al merito e alle eccellenze, qualunque cosa questi termini significhino.

Il progetto smart dell’era Renzi sulla scuola aveva già mostrato tutte le sue miserie: quando tanta profusione di slogan reclamizzati aveva preso una piega strafalcionesca; quando l’affresco di una scuola performativa, competitiva e orientata sulle competenze professionali aveva avuto la meglio sull’orizzonte aperto di una scuola formativa, cooperativa, criticamente atteggiata.

Ora tutta la congerie di trovate scintillanti prende a scolorire, a ingrigire, a virare verso un brutto tono senza luce quando viene allo scoperto che, anche sulla scuola, il Nuovissimo è sostenuto dalle solite vecchie e rancorose potenze confindustriali.

* Comitato promotore Assemblea Nazionale Università bene Comune (Unibec)