Il Leopardi di Martone è offerto al pubblico italiano come un dono lussureggiante per ripensare, anche seguendo la propria maturazione, il tragitto della nostra storia in bilico (per gli stranieri sarà più ostico: Leopardi who is it? ci chiedono anche i critici anglosassoni più accorti), noi conosciamo d’altra parte ben poco della letteratura portoghese, ci sembra di aver imparato tutto dai film di Manoel de Oliveira, con i suoi poeti seduti ai tavolini dei bar, le lettere scambiate, i personaggi evocati nel patio e nei conventi, tirati fuori come dalla sua libreria al momento giusto. Come Leopardi si affaccia all’epoca moderna e spazza via le accademie, così Cervantes fa da spartiacque tra due epoche. Il poeta che si affaccia sul secolo nuovo è scelto da Manoel de Oliveira come uno dei suoi generali da schierare nel suo ultimo film O Velho de Restelo.
A lui certo non hanno detto come i produttori di Martone «in fatto di finanziamenti non potevamo negargli nulla», ma in quei 19 minuti si può trovare tutta la magia dell’ambiguità tra parola e immagine, passato e presente e quel sottile confine da perderci la testa tra lingua portoghese e spagnola.
Il frontespizio del Don Quixote, inquadrato all’inizio e alla fine di O Velho do Restelo presentato fuori concorso, ci rammenta uno dei punti di riferimento da cui ripartire per orizzontarsi, tante sono le analogie tra l’epoca che si chiudeva quando fu scritto e quella che si affacciava, carica di incognite, a superare anche i limiti nazionali e di conquista.
Con il Don Quixote e I Luisiadi di Luis de Camoes (di cui O velho de Restelo rappresenta il IV canto) il regista intanto mette in scena il doppio destino di un territorio diviso, separazione che sarà poi amplificata, decisa dal papato nel nuovo mondo con nettezza geometrica, si affaccia sul baratro della storia per avvertire dei corsi e ricorsi soprattutto nelle epoche di transizione («ma tutto è sogno», ricorda), o meglio rimanda ai classici, utile avvertimento in caso di assoluto disastro.
All’età del regista in cui si dialoga tra pari, in cui si colloquia solo con i poeti, con i classici – lui lo ha fatto da sempre – mette insieme chi ha meglio espresso nella cultura lusitana il pessimismo, l’ironia, il romanticismo. Seduti sulla stessa panchina non desolata ma assai combattiva siedono, uno accanto all’altro, come fossero pensionati speciali Louis de Camoes, che perse l’occhio destro in battaglia, cinto di alloro come è rappresentato nelle stampe, imparentato con Vasco de Gama e che accanto a lui fu sepolto, Teixera de Pascoaes lo scrittore romantico del XIX secolo a evocare il poeta di cui scrisse nel suo O penitente, morto qualche anno dopo la sua nascita, Camilo Castelo Branco, autore di quell’Amor de perdiçao che Manoel de Oliveira diresse nel 1972. E un po’ solitario se ne sta Cervantes in armatura, come fosse appena tornato dalla battaglia di Lepanto, soldato che non ha parole, che ha visto tutto.
Il romanzo si apriva al nuovo mondo che aveva spazzato via da un pezzo gli ideali della cavalleria. De Oliveira mette in relazione il capolavoro portoghese di Camoes, che raccontava la gloria di un popolo nel periodo delle grandi scoperte georgrafiche, letto dallo stesso scrittore al re per prevenirlo inutilmente della prossima sconfitta, e il capolavoro di Cervantes scritto dopo la sconfittadell’Invincibile Armada. Ma più ancora mette in relazione per affinità Quixote e Camilo Branco «perché mostrano le loro debolezze, sono più umani». Il Quixote che il regista mette in scena ripetutamente è scelto dai brani del film di Grigori Kozintsev interpretato da Nikolaij Cherkasov (era stato anche Ivan il terribile, c’è dell’ironia in questo unico volto per due eroi così distanti).
Vediamo la copia de I Luisiadi, il poema di Camoes galleggiare sulle acque dell’oceano senza affondare, una scena che parla di esplorazioni e di battaglie navali, un ondeggiare che appartiene alla materia stessa di una terra il cui destino è l’Atlantico. O velho, era il vecchio che ammoniva a non affrontare il viaggio della scoperta delle nuove terre, metteva in guardia contro i pericoli («che morti, che perigli, che tormenti»), avvertiva il re senza essere ascoltato della sconfitta imminente di Alcacer Quibir. Il paesaggio prima della battaglia è coperto di schiere di soldati in armi e vessilli. «Sire, le truppe hanno bisogno di un discorso». Ma il re non parla. O Velho do Restelo è ancora oggi un termine che definisce il pessimismo, il regista capovolge il significato: nel saper prevedere il disastro è il senso del film, avverte de Oliveira.