La letteratura è innanzi tutto menzogna, illusione. Si basa sulla fantasia, sulla capacità di inventare storie e di saperle raccontare. E poi, quando è buona letteratura, dalle invenzioni che narra vengono fuori profonde verità.

A VOLTE, LE STORIE si concentrano in luoghi speciali, immagini di sogno che per i lettori diventano anch’esse più reali della realtà. Possono essere località inventate come Mompracem, Spoon River o Macondo. Oppure luoghi esistenti che però acquistano i caratteri, i sapori, gli odori delle storie che li hanno attraversati: la Venezia di Corto Maltese, la Dublino di Joyce, la Patagonia di Chatwin.
Il libro di esordio del portoghese Bruno Vieira Amaral, intitolato Le cose di prima (traduzione di Giorgio De Marchis, Nutrimenti, pp. 352, euro 19) aggiunge alla vasta geografia letteraria un nuovo luogo, il Quartiere Amélia, periferia della periferia, tanto che «solo i perdenti, gli scansafatiche e gli infelici non se ne andavano di lì, persone che si confondevano con il paesaggio, i lampioni con le sfere di vetro rotte, le porte arrugginite del campo di Arregaça, i muri luridi, le panchine spaccate dei parchi».

NATO da una serie di occupazioni, poi mèta di molti cosiddetti retornados, ossia chi rientrava in Portogallo dai territori africani a seguito del processo di decolonizzazione, il quartiere è abitato da una umanità varia e multiforme che emerge in tutta la sua potenza fra le pagine del libro di Vieira Amaral. O, meglio, le situazioni, gli eventi, i personaggi descritti in brevi racconti, quasi delle schede a volte, non è il presente del Quartiere Amélia, ma il suo passato, le cose di prima, appunto. Un lungo prologo inquadra la struttura del libro. Il narratore, alla fine degli anni Novanta, è riuscito ad andarsene, ma ben presto è costretto a ritornare nel quartiere a seguito del fallimento della sua vita: è stato licenziato e pure lasciato dalla sua donna. Un incontro casuale, il riferimento a una sua vecchia compagna di classe, scomparsa e mai più ritornata a casa, innescano il tentativo di ripercorrere il passato, riandando con la memoria a fatti e persone spesso non più viventi. Per poterci riuscire, però, Bruno – il romanzo è tutto in prima persona – ha bisogno di una guida, di qualcuno che gli permetta di percorrere le viscere, i segreti, i sogni, le delusioni del sobborgo e dei suoi abitanti.

CASUALMENTE – o magicamente? – si presenta un vecchio fotografo, vera memoria storica del luogo, che guida l’autore come un nuovo Virgilio (non a caso questo è il suo nome) lungo gli itinerari, le memorie, i misteri di quel quartiere.
Scritto in una prosa stringata, eppure estremamente evocativa, Le cose di prima avvolge il lettore mostrandogli l’anima più profonda del luogo, non nascondendone mai gli aspetti, anche sordidi. La tecnica di scrittura di Vieira Amaral risulta particolare e affascinante, in grado di passare dall’ironia al cinismo, dal comico al tragico. Da notare un uso a dir poco inconsueto delle note a piè di pagina, che spesso diventano dei veri e propri raccontini indipendenti. Così come davvero efficacie e malinconica il modo in cui lo scrittore vede se stesso e i suoi personaggi.

DOPO LA BOMBA di Hiroshima non ci furono solo morti, alcuni di questi ultimi sono sopravvissuti: «Nell’istante in cui i corpi furono vaporizzati, il caldo impossibile da sopportare disegnò ritratti eterni sui muri. Perirono, ma le loro ombre rimasero per sempre».
I personaggi, le donne e gli uomini di cui si è narrato sono ombre sul muro, oppure fantasmi, o ancora hibakusha, sopravvissuti. Alcuni di loro, come pure alcuni eventi raffigurati – o forse tutti? – potrebbero anche essere completamente inventati, menzogne, sogni. Del resto, da tanto tempo dovremmo sapere che la vita è sogno.