Ritorno a Istanbul per ritrovare destini lasciati in sospeso
Al cinema Ferzan Ozpetek mette in scena il lungo distacco dalla sua terra e il mistero della creatività al lavoro
Al cinema Ferzan Ozpetek mette in scena il lungo distacco dalla sua terra e il mistero della creatività al lavoro
Questo di Ferzan Ozpetek è un ritorno speciale in Turchia: torna per realizzare un film e la messa in scena di vari livelli di sdoppiamento: di chi va via dal suo paese per poi tornare, della scrittura e della regia, dell’autore e dell’attore. Orhan, uno scrittore che vive a Londra da tempo, torna a Istanbul per aiutare Deniz, il suo amico regista nella stesura di un romanzo (come dal romanzo Rosso Istanbul di Ozpetek è tratto il film). È corale la presenza delle donne, nella casa di famiglia attorno al consueto tavolo imbandito dove si trovano riunite padrona di casa, governante, zie e donna del destino. Sfuggente la comparsa degli uomini. Il protagonista è come sdoppiato nella presenza-assenza di Deniz che rappresenta quello che Orhan sarebbe potuto diventare restando a Istanbul, con i suoi rapporti stropicciati dal tempo.
Gli sceneggiatori svelano acutamente questo sottotesto attraverso elementi letterari, evocando le parole di sir Douglas nei confronti di Wilde, i suoi crudeli ripensamenti. Douglas/Wilde: un’altra delle dicotomie del film che affiorano precisamente nei dialoghi. E a creare un senso di maggiore comunità compare la figura di Yusuf chiara contaminazione dal primo Fassbinder.
Colpiranno nel film le numerose riprese fatte riprendendo di spalla gli attori, soprattutto del protagonista (Halit Ergenc che interpretò Ataturk e Suleiman il magnifico), espediente che ci accompagna a scoprire, penetrare nel profondo di un’emozione nascosta e dimenticata, ma anche a presentare la magnificenza del paesaggio, l’eleganza avita di una veranda, la più nascosta forma mentis di un autore che nell’intimo della sua creatività accumula indizi, ritagli, nomi e ricordi per trasformarli in «opera».
Del film infatti dopo ave colto l’elemento quasi poliziesco di una scomparsa sospetta, appare evidente l’elemento del processo creativo dove si espongono i vari spunti che dolorosamente arrivano a comporre l’opera. Come ad esempio l’impossibile amore tra lo scrittore e il suo personaggio.
Di terribile tensione drammatica sono i film turchi che abbiamo visto negli ultimi anni, periferie in fiamme, occultamenti e sparizioni, combattimenti, situazioni esplosive. Ozpetek che ha sfiorato da quarantun anni la mollezza italica, ora che quella dolcezza è diventata avvelenata, può solo suggerire allo spettatore straniero (quei film si vedono quasi solo nei festival) brandelli di durezza poliziesca, la realtà degli uomini scomparsi nel nulla (a cominciare da Deniz) e reclamati ogni sabato da vent’anni dalle madri in piazza Galatasaray, la distruzione dei villaggi. E soprattutto in una scena chiave e fulminea il fondamentalismo inchiodato come incubo inaspettato.
Alla malinconia del racconto è legato il manto d’acqua, il Bosforo che separa Asia ed Europa. Per attraversare quel tratto di mare a nuoto ci vuole un certo coraggio, come anche per entrare nelle acque profonde di questo film.
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