Questa mattina il giorno sull’Esquilino è così morbido e come granuloso che sembra intriso della luce lunare che l’ha preceduto, o almeno ne serba memoria, stanotte la luna era ancora piena e splendeva, non nascosta da nuvole. Senza pensieri riordino un poco la cucina – le mani funzionano sempre meglio, quasi non sento più gli impedimenti della vecchia ischemia, mentre il corpo intero si manifesta solo con un ronzio lieve, la tacita meraviglia di ciò che inesplicabilmente funziona senza scosse, non avvertito né pensato – la normalità, non è poi questo? e vedo le tracce della fatica di Emanuela per seguire me nei giorni del ricovero in clinica e insieme curarsi di Lorenzo che andava a New York per lavoro, badare alla casa e a Theo e Ortensio certo stralunati con questo affollarsi di partenze e assenze e intermittenze, e mentre preparo un enorme sacco con la spazzatura scendono di colpo le lacrime.

Sono a casa! Lo capisco ora ed è una scossa elettrica nella schiena, poi un fiotto caldo, non ho tempo di compiacermi in questo nido di tepore gioia gratitudine che si è creato perché il freddo improvviso dal terrazzo aperto, esposto a Oriente – mettevo provvisoriamente fuori il sacco della spazzatura, sacco barbarico unico, in attesa di uscire, niente raccolta differenziata ancora – mi costringe a tornare di corsa in camera per indossare una vestaglia pesante.

Davanti alla finestra della stanza, che dà invece a Occidente, alta sui viali rettilinei sui palazzi dell’Esquilino, l’allegria erompe di nuovo: sono a casa! I gabbiani tracciano curve molto ampie, tese su rotaie che loro conoscono, la luce diventa netta sulla parte più alta dei palazzi, ora illuminati in file successive di anfiteatro mentre la mano fredda dell’ombra retrocede, la granulosità un po’ lattiginosa di poco fa è quasi un’eco ormai, in basso uomini curvi alti e magrissimi con sacchi di plastica azzurra in spalla battono le mani per il freddo percorrendo veloci i canaloni delle strade ancora senza sole, e penso chissà che vuol dire per loro, essere a casa.

Ma sono a casa!, di nuovo mi dico e sento che non voglio perdere la luce della notte, voglio portarla con me in questo unico giorno che cresce, e poiché sono fatto di libri e di parole la mente compitando cerca di porgermi i versi di un antico poeta greco, per la verità arriva intero solo un verso, il resto è balbettio, ma quel verso intero è potente da stordire: «dormono le cime dei monti».

Dormono le cime dei monti ed è proprio così mi dico, nella realtà più vera è così, nella luce del sole possiamo scordare la notte ma la notte è sempre con noi, tutto ciò che non vediamo più nella bellezza nella gioia o nella fatica del giorno continuiamo a portarlo con noi, e può essere terribile o può essere altrettanto bello, come io non sono adesso solo ciò che osservo ma sono le parole, le voci che mi si affollano in testa, sono i passi perduti nel freddo del migrante per strada, sono l’albero con cui parlavo la notte in clinica e le storie che mi narrava e allora devo fermare questo flusso, deve prendere una forma e una soltanto che tutte le contenga, che possa accompagnarmi e accompagnare tutti noi nel nostro unico giorno.

Vado a cercare la vecchia edizione dei Lirici greci nei tascabili di Garzanti, I Grandi Libri, 1978, volumetto bello cicciotto che ha resistito a ogni traversia, bordato di un grigio sommesso, e leggo a voce alta i versi del frammento di Alcmane chiamato a volte Notturno, ma non ha titolo, lo leggo in questa traduzione che amo di Gennaro Perrotta, è solo un frammento, una delle cose più belle che il mondo abbia creato.

«Dormono le cime dei monti, e gli abissi, e i promontori e le forre, e le stirpi degli animali che la nera terra nutre, e le fiere montane, e le progenie delle api, e i mostri nei gorghi profondi, del mare di viola; dormono le stirpi degli uccelli dalle lunghe ali».

Noi siamo legno storto e disordine e incuria ma siamo anche questo, la cura di queste parole che curano, e non perché confortano, o addolciscono e quindi mentono, e le possiamo così meglio accettare come familiari, ma proprio perché ci portano in una sospesa distanza.

Questi versi che mi sono permesso di presentare di seguito, come fossero prosa, parlano di qualcosa così infinitamente lontano da noi e dalla nostra esperienza: intanto la notte in sé, non riducibile al giorno, poi la realtà non individuale, non confortevole, di tutto ciò che è vivente, non sottomesso in alcun modo a noi; e perdipiù, vista con gli occhi di un uomo greco forse del VII secolo avanti Cristo, per il quale la terra non è bruna o marrone o altro ma è sempre nera, «mélaina gaia», la nera terra, e il mare è sempre purpureo, «porphyréas».

E tu Alcmane forse eri un maestro di danza o forse eri stato uno schiavo, liberato per il tuo talento con le parole e per il canto nella Sparta non ancora così militarizzata, e oggi per le parole che ti giunsero e tu riuscisti a fermare, noi siamo questo, in ogni momento del giorno siamo per sempre anche la notte le fiere dei monti che mai abbiamo conosciuto i mostri che dormono la progenie delle api le forre e le cimedei monti di Sparta.

Siamo le code nel traffico, siamo il cristallo del destino ancora da svelare dell’uomo che passa per strada e getta sul marciapiede il fazzoletto sporco, e che vorremmo nemmeno pensare, siamo il gatto e il cane che mi aspettavano proprio dietro il portoncino di casa, stupefatti e felici e ancora in apprensione, la sera che sono tornato, e come avranno fatto a capire dai rumori dell’ascensore del cancelletto dei pochi passi miei e di Emanuela della chiave infine che girava nella toppa, questo ha certo una spiegazione semplice ma io non la so, so però che io sono e sarò tutto questo, so che siamo questo, so che siamo tutti.

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Mentre tutto questo già avviene

Negli ultimi giorni gli effetti combinati e non ancora perfettamente arginabili della nuova terapia, o piuttosto del nuovo protocollo di cura, hanno ridotto le energie a quel minimo che mi permette solo di far fronte a qualche emergenza sul lavoro, e nulla più.

So che anche questo passerà, e sento che se riesco a scrivere, anche se riesco a scrivere soltanto questo, che gli effetti non ancora perfettamente arginabili della cura non mi permettono di scrivere, sento che se riesco a scrivere anche soltanto questo una minima riparazione è intanto avviata, il lavoro benefico di una trama che si ricostituisce, di un tessuto che riprende a formarsi, di un benessere minimo e caldo e costante che genera la scintilla che è tutta la differenza: la differenza con il vuoto la mancanza lo strappo la frattura che aumenta.

Invece lo strappo sarà riparato, il lavoro del riparare mi porterà al benessere e alla certezza, la certezza del giorno che si rigenera, del giorno costante di energie e benefico.

Io sento che tutto questo già avviene se solo riesco a scrivere questo, per me stesso e per voi che lo leggerete, sento che tutto questo già avviene, che di nuovo la gioia è possibile dopo i giorni dell’astenia e dell’incertezza, delle possibilità che più non hai, della piccola prolungata paura, quando torna di nuovo la benedetta possibilità di fare, la benedetta possibilità di fare, che è tutto, se solo riesco a scrivere questo, allora veramente tutto questo già avviene.

 

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Risveglio nell’isola

Mi sveglio nel silenzio. La luna è piena e altissima nel cielo, corre tra banchi di nuvole. Il vento, questa è l’isola dei venti, è una carezza tutt’altro che timida. Non sento più di avere i vestiti, maglietta e calzoncini, solo aria e corpo. Venti ore fa ero sudore appiccicoso in città, solo venti ore fa, così esultando è facile decidere, mi rannicchio nella sdraio che trovo davanti a casa, sotto il pergolato e mi lascio andare all’arroganza del vento, alla presunzione sua costante e non capricciosa e capisco d’un tratto che è questo, il mio, il mio di adesso nel vento, il movimento calmo furioso e morbido della luna.

Fino a tardi durarono musiche approssimative, rumore, ci addormentammo con quel fastidio scherzando, ma è questa l’isola, un’unica città disfatta si stende ovunque nel pianeta?

Come ho fatto, ora, al risveglio, a non sentire i suoni? Ogni oscillare e stormire delle lunghe foglie affilate sotto il vento nell’alto canneto, fitto come una foresta, che corre dalla casa al cancello e segna il sentiero di pietre e terra battuta, è una vibrazione che genera un suono, alieno. I galli lanciano richiami assordanti di sfida che la piccolissima valle dove sorge la casa, addossata alla sommità dello scoglio roccioso, amplifica e rimanda come un battibecco insensato. Finiscono per confondersi. Con le risa degli ubriachi, possibile resistano fino a quest’ora? Strano, ora i suoni non arrivano più così distinti, lo spazio è colmo di un borbottio, un frignare indistinto, dove prevalgono le note acute.

Lo spazio. Quanto ne abbiamo qui, per la breve vacanza di due sole persone.

Tra la casa, il terreno, il giardino, il canneto, almeno mille unità-profugo. Quattro barconi pieni zeppi, almeno. Cominciamo ad adottare nuove unità di misura, più adatte ai tempi. Un nuovo possibile metro. Lo spazio che un essere umano ha a disposizione in certi casi, non molto lontano da qui, tutt’altro che lontano da qui.

Ma non c’è nessuno, qui. Assolutamente, nessuno.

Un salto blu nel colore del cielo. Scatta un gigantesco interruttore e una scossa cobalto si accende violenta, l’occhio l’ha solo intuita, è già passata. Subito dopo, ogni gloria luminosa della notte è perduta. Ovunque uno sforzo livido, tuttavia noncurante, prepara il giorno.

Mi muovo nelle strade, scendo a Calanave, cammino nell’acqua del mare, risalgo al Faro.

Quante barche sul mare, all’ancora, addormentate, le maniche arrotolate.

Corre rapida la corrente nel taglio netto dell’antico canale romano, a protezione del porto, una virgola netta nel tufo.

Mi siedo sulla roccia. Avrei bisogno di qualcuno, con cui parlare. Ma non c’è nessuno, qui.

Però ho portato da casa un libro con me, di Alvaro Mutis, il primo delle storie di Maqroll il Gabbiere.

Il mare, certo. Un libro del mare. L’ho preso senza pensarci. Leggo le pagine dell’inizio, il libraio antiquario di Barcellona, el barrio Gòtico, l’acquisto del libro, la sorpresa di trovarci dentro un inaspettato tesoro, i foglietti con la scrittura di suo pugno di Maqroll.

Alzo gli occhi dalla pagina. La vedo lontanissima, come se il mio sguardo si fosse innalzato, è diventata molto piccola pur rimanendo nitida, i caratteri li distinguo bene, pur da quassù.

La luce del giorno preme da sotto una nuvolaglia scura che si stende su tutto l’orizzonte. Le barche all’ancora dondolano appena. Sempre la corrente scorre veloce, nel capolavoro romano di ingegneria delle acque, sopravvissuto a tanti secoli, inutilmente.

Chiudo il libro e le vedo distintamente. Macchie di ruggine cominciano a corrodere la copertina bianca, a partire dal bordo.

Non c’è nessuno, qui.

Nemmeno io.

Proprietà letteraria riservata
© 2017 by Severino Cesari
Published by arrangement with Agenzia Santachiara
© 2017 Rizzoli Libri S.p.A. / Rizzoli