Alias

Ritmo e mostri, stile John Landis

Ritmo e mostri, stile John Landis

Intervista Il regista statunitense è stato ospite al Cinema ritrovato di Bologna e sarà al Magna Graecia film festival di Catanzaro, tra revival e considerazioni politiche

Pubblicato circa 2 anni faEdizione del 2 luglio 2022

Schermo tirato a sfoglia di lasagna in Piazza Maggiore e, nel buio, folla di fans con occhiali da sole. A Bologna, domani sera, The Blues Brothers. Il regista, John Landis, ospite d’onore del Cinema Ritrovato, avrà lo sguardo ancora più vispo e divertito, un guizzo di buonumore dentro la gran barba salepepe, dopo la masterclass di ieri, infarcita di ricordi e aneddoti dell’intera carriera cinematografica, da National Lampoon’s Animal House a An American Werewolf in London, a Una poltrona per due e, naturalmente, The Blues Brothers, gelatone misto di musica, commedia e satira, che nell’80, già star da due anni grazie al gruppo dei ‘Blues Brothers’ e al film Animal House, consacra per sempre John Belushi.

Al quale, a 40 anni dalla morte, dedicherà poi un omaggio, dal 30 luglio, il Magna Graecia Film Festival di Catanzaro, sempre con masterclass di John Landis (che in quei giorni, il 3 agosto, festeggerà i 72 anni dalla nascita a Chicago) e proiezione dell’immancabile blockbuster The Blues Brothers, successo planetario e stigmate perenne d’una generazione, grazie alle sfavillanti coreografie musicali e alla presenza di guest stars di soul-funk, rhythm and blues e jazz, da Aretha Franklin a Ray Charles, a Cab Calloway, John Lee Hooker, James Brown, Alan Rubin, ma anche per le carambole a catena d’automobili, per cui il film detiene tuttora il record mondiale: 13 Bluesmobili e 30-60 auto della polizia polverizzate durante le riprese.
«Sono un fan della commedia musicale – si giustifica il regista, con il consueto sorrisetto ironico – perciò ho poi tentato il bis nel 1998 con il sequel Blues Brothers 2000 (Blues Brothers il mito continua).

Volevo rendere omaggio alla musica e alla danza. Nel film, Belushi ha ripreso il personaggio di ‘Joliet’ Jake Blues che s’era inventato nella trasmissione Saturday Night Live, formando un duo sulfureo con Dan Aykroyd: i fratelli « Joliet » Jake e Elwood Blues. Due delinquenti, stoici, imperturbabili, flemmatici, buffi, riconoscibili dal caratteristico look: cappello, completo nero, calzini bianchi, occhiali neri. Una specie di Stanlio e Ollio del blues, secondo i progetti della costumista, che ha dato fisionomia verticale a Aykroyd, orizzontale a Belushi. L’articolo ‘il’ o ‘ol’ si dà una missione, salvare dalla bancarotta, in modo onesto, l’orfanotrofio dove sono cresciuti. Ebbene, il 19 giugno 2010, il Vaticano ha riconosciuto il senso cattolico della missione … ».

Anche Landis s’era dato, fin da piccolo, una missione – forse non ancora riconosciuta dal Vaticano – quando, nato da famiglia ebrea di Chicago, si scopre fin da piccolo grande cinefilo. Appena cresciuto, interromperà gli studi per farsi assumere come fattorino alla 20th Century Fox. Seguiranno cine-passettini nel mestiere e poi autentiche imprese spaziali : assistente di produzione, cascadeur (nei western-spaghetti di Sergio Leone, Il buono, il brutto, il cattivo e C’era una volta il West o di Tonino Valerii, Il mio nome è Nessuno), primo film nel 1973, Schlock, parodistico King Kong scritto in un week-end e girato con gli spiccioli d’una colletta tra amici (70.000 dollari), seguito due anni dopo dalla commedia-puzzle The Kentucky Fried Movie. Poi il boom, con Animal Housee An American Werewolf in London, che aveva scritto a 19 anni, subito Oscar per il miglior trucco.

Tra un film e l’altro, grandi clip innovativi, per B.B. King e Paul McCartney, e soprattutto, nell’83, per Michael Jackson, Thriller (di lunghezza record, e la cassetta del making of best seller mondiale), cui seguirà nel ‘91 Black or White, trionfo del morphing. E, dagli anni 90, tanta tv, sopratttutto da produttore: Disneyland’s 35th Anniversary Special nel 1990, preceduto 5 anni prima da Disneyland’s 30th Anniversary Celebration.

Due volte Disney, anzi, Disneyland. Perché?
Avevo 5 anni quando, nel 1955, Disneyland ha aperto le sue porte. Da allora, almeno una visita all’anno. Con gli occhi di bambino cresciuto a Losa Angeles, in tv divoravo Topolino e David Crockett, tutto il Disney possibile. E al cinema non mi sono mai perso un film. Disney era un vero visionario: aveva sempre lo sguardo rivolto al futuro.

Disney è l’America, la convinzione d’essere un Paese-leader. Il suo cinema, fatto di America, giustamente la critica e l’irride, già dai tempi di Bush, con serie tv come Masters of Horror, di cui aveva presentato al 26° Torino Film Festival il caustico «Family».
Il capitoletto ricuce a misura «horror» un luogo canonico dell’armonia Usa: la famiglia, che uno psicotico si costruisce pezzo a pezzo, prelevando madre, padre, moglie, sorellina agli altrui focolari domestici, poi debitamente «trattati», finché una coppia superstite non reagisce con equivalente aberrazione. Family si diverte a ritrovare i rimandi metaforici alla società americana del tempo. Ma – ride Landis – Bush non mi ha fatto da co-regista. Sicuramente, però, ha molto contribuito alla mia nuova visione dei mostri made in Usa: e al loro successo. Il mio non è un film sui mostri di fantasia ma sui mostri della realtà. Sono ben più spaventosi dei prodotti della nostra immaginazione: perché appartengono alla vita quotidiana. Sono qui, in mezzo a noi.

Siamo noi?
Bisogna distinguere. Il mostro, il serial killer è il protagonista: tra l’ altro, un attore assai popolare in Usa per una serie che andava avanti da 12 anni e che l’aveva fatto entrare in tutte le famiglie americane. L’ insospettabile ideale. Ma tutti noi, se non direttamente complici, siamo co-cospiratori, parenti prossimi di tutte le persone «normali» che ci circondano, a partire dai politici. Non sarà sfuggita a nessuno, all’epoca, la dichiarazione del vicepresidente Usa, per cui la tortura può essere accettabile: non è la convinzione di uno psicotico?

Vuol dire che il minuscolo foyer di provincia di Family è un concentrato di politica internazionale?
Non si può dire che il «mostro» Saddam fosse una brava persona. Ma è anche vero che non ci aveva mai attaccato. Sono state le menzogne di quei mascalzoni che abbiamo lasciato governare per tutti questi anni a farne il bersaglio di un attacco di Stato, mascherato da missione provvidenziale: una nuova Inquisizione, di marchio psicotico. È stato Bush il primo a presentarla come una nuova crociata. E per giustificare il suo appoggio a Israele ha invocato la Bibbia. È la religione, oggi, il vero mostro: il mondo è minacciato e diviso per colpa di folli che da una parte o dall’ altra vogliono imporre il loro credo.

Per questo il film è cadenzato da un gospel, inneggiante al sangue che candeggia e purifica?
Sì, lo sceneggiatore aveva previsto musica classica. Ma io non mi sono fatto scappare l’occasione di sottoporre una torbida quotidianità alle principali ossessioni della Chiesa cattolica in America: il sangue e la (omo) sessualità. Anche qui, è passato un bel po’ di tempo prima che aprissimo gli occhi.
Ci sono voluti scandali a ripetizione, come quello del pastore a capo d’una chiesa evangelica anti-gay, con 38 milioni di accoliti, smascherato in pubblico da uno che regolarmente si prostituiva con lui: da noi è stato uno choc. Come se avessero sorpreso il Papa con una ragazzina. E non va dimenticato che la Chiesa ha perso da noi innumerevoli fedeli dopo che il Pontificato non ha preso aperta posizione contro i preti pedofili. Insomma, l’America è un Grande Paese della bugia, dilagante in tutte le manifestazioni di potere, religioso e politico, occupato da troppi anni da psicotici. Bush, da questo punto di vista, ha battuto tutti i suoi predecessori. In tal senso, Family è anche un «suo» film: perché l’ha profondamente influenzato.

Al centro della famiglia artificiale «adottata» (e adattata) dal folle, c’è sempre la madre: ironico ammicco a «Psycho», vista la sua consistenza letteralmente scheletrica?
Sì, ma con la differenza che, stavolta, la madre, se l’è scelta su misura il protagonista. Questo non elimina nel film né in America né nell’ intero pianeta il problema della mamma-dipendenza così sentita da voi italiani, ma che, posso assicurare, è identica ovunque – ride il regista, snocciolando subito due barzellette sul tema, una messicana, l’altra cinese –.
Ma noterete che ho aggiunto, con qualche cattiveria, un altro incubo d’obbligo in ogni famiglia cinematografica che si rispetti: la moglie. Il pazzo è così pazzo da fabbricarsela bisbetica.

I consigli di mema

Gli articoli dall'Archivio per approfondire questo argomento